La riforma possibile

Ogni cambiamento degli assetti istituzionali comporta molte implicazioni, non solo politiche. Le valutazioni tecniche, alla portata solo dei giuristi, spaccano i fronti sulla base di motivazioni culturali, di appartenenza, di storia personale Quelle più politiche restano quasi sempre sul filo delle opportunità, e spesso travalicano il merito a favore della convenienza delle singole fazioni. La comunicazione trova nei passaggi elettorali tutto l’interesse per destare l’attenzione del pubblico, svelando retroscena e azzardando possibili scenari successivi. E poi ci sono i sondaggisti la cui materia prima sono gli eventi, meglio se politici. Niente di più fruttuoso che misurare la temperatura della pubblica opinione in vista dell’espressione di un voto.
L’insieme degli argomenti dei costituzionalisti, dei politici, dei media e dei sondaggisti rischiano, tuttavia, di oscurare le semplici ragioni pragmatiche e di buon senso. La più banale è quella di rilevare se il cambiamento sia necessario o se è meglio lasciare le cose come stanno. Se la nostra democrazia ha bisogno di regole che la facciano funzionare meglio e la rendano più simile agli altri grandi paesi europei, non è forse il caso di rinviare la riforma di altri dieci anni.
Si può, poi, eccepire che la riforma costituzionale è necessaria ma è “fatta male” perché nelle quattro letture si è deformata. Nei tanti compromessi parlamentari (alla Camera e al Senato) le norme hanno perso quella asciutta assertività tipica degli articoli di una Costituzione ideale. Ma paradossalmente la riforma è necessaria proprio perché in futuro l’attività legislativa risulti più efficace, meno soggetta a defatiganti trattative. E quindi, i critici della riforma costituzionale, respingendola, ci riporterebbero indietro confermando le regole che hanno affievolito via via la portata del cambiamento generando una Legge di compromesso. Non sarà meglio accontentarci di questo primo passo?
Giuseppe Roma

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