Il real estate che ci manca

di Giuseppe Roma.
Fra i recenti segnali positivi dell’economia va inclusa la ripresa del settore immobiliare, che, fin quando non diventa una bolla finanziaria, in tutti i paesi avanzati viene considerata un’industria al pari delle altre. Purtroppo, in Italia ha caratteristiche del tutto particolari che finiscono per depotenziarne l’apporto positivo alla formazione del Pil. Il fatturato del nostro real estate è per il 70-80% residenziale, comparto che registra un significativo trend di crescita con oltre mezzo milione di abitazioni vendute nel 2016 (+19%) e una prospettiva di ulteriore aumento per il 2017 del 3%. Crescono i volumi anche grazie a una costante riduzione dei prezzi, in atto ormai da anni. Per Eurostat negli ultimi 12 mesi i prezzi delle abitazioni sono cresciuti del 3,8% nell’eurozona, ma diminuiti da noi dello 0,2%. Proprio la riduzione dei prezzi e una maggiore facilità di accesso ai mutui hanno consentito l’acquisto di una casa a una platea molto ampia di famiglie. Bisogna però considerare che il mercato residenziale è per il 75% costituito da scambi – in gran parte fra privati – di abitazioni usate e di bassa qualità e quindi non riguarda processi costruttivi e di rigenerazione urbana.

Questa pressione di domanda, comunque, dovrebbe provocare, per il rapporto di previsione sui cicli immobiliari della Rur, una crescita dei prezzi delle case, dal 2018, mediamente al 2%. Quindi la ripresa c’è, ma con deboli effetti strutturali. La pur rilevante movimentazione di risorse finanziarie, si sperde nei rivoli degli scambi fra privati, col concorso di agenzie immobiliari, piccole imprese edili e, certo, anche banche. Un congelamento del patrimonio edilizio che, per quanto si possa riqualificare, resta a scarsa efficienza energetica e talvolta strutturalmente insicuro: un immobiliare troppo debole per stimolare il Pil e riorganizzare le nostre città in modo moderno e sostenibile.

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