di Ester Dini.
Tra le diverse dimensioni di vita destinate ad essere modificate ancora per lungo tempo dall’emergenza covid vi è quella occupazionale. Il rientro al lavoro, tra mille limitazioni e adempimenti, ha comportato per molte aziende la scelta di continuare a ricorrere al lavoro agile ponendo forse per la prima volta il Paese di fronte alla sfida – opportunità di ripensare seriamente il proprio modello lavorativo.
L’esperienza del lock down ha del resto dimostrato come, pur tra mille difficoltà, il lavoro da casa ha funzionato. Secondo le stime del Centro Studi dei Consulenti del Lavoro, sono stati 4,5 milioni di dipendenti coinvolti da tale modalità, vale a dire il 24,8% della forza lavoro occupata in imprese e organizzazioni pubbliche. Ma quella che all’indomani dell’avvio del lock down era stata salutata come la più grande sperimentazione mai fatta su larga scala dello smart working ha presto mostrato molti limiti.
La condizione emergenziale con cui è stato applicato il lavoro agile ha prodotto fin dall’inizio molte criticità, rendendo di fatto l’home working molto lontano da quel modello di lavoro “smart”, con cui era stato frettolosamente definito. L’improvvisazione delle soluzioni domestiche, la condivisione degli spazi e la conseguente difficoltà di conciliazione tra impegni famigliari e aziendali, il venire meno del confine temporale vita-lavoro, con la percezione diffusa di essere permanentemente connessi hanno condizionato non poco il lavoro di tanti italiani da casa. Difficoltà che si sono sommate a quelle sistemiche di un Paese colto del tutto impreparato dalla sfida, con un basso livello di conoscenze informatiche di imprenditori e lavoratori, e una infrastruttura tecnologica inadeguata a rispondere al sovraccarico di utenza che in pochissimi giorni si è manifestato.
Ciò nonostante, quella vissuta è stata un’esperienza importante, destinata a lasciare il segno, in un Paese dove, pochi mesi prima dell’emergenza, solo il 2% degli occupati lavorava occasionalmente o stabilmente da casa, a fronte di una media europea dell’11,6% e di Paesi come Regno Unito (20,2%), Francia (16,6%) o Germania (8,6%) e soprattutto il Nord Europa, dove lo smart working rappresenta una modalità di lavoro ormai consolidata da tempo.
Da un lato, una simile esperienza ha permesso di accelerare l’acquisizione di competenze informatiche da parte di tante imprese e lavoratori, avviando un processo di alfabetizzazione digitale che non sarebbe altrimenti stato possibile e costringendo molte aziende ad innovare le proprie infrastrutture tecnologiche. Dall’altro lato, pur tra mille difficoltà, ha lasciato intravvedere le potenzialità di un nuovo modello di lavoro che potrebbe riguardare tantissimi lavoratori.
Secondo recenti elaborazioni su dati Istat sarebbero 3,8 milioni i lavoratori dipendenti (21,1% del totale) occupabili in modalità agile, per cui le caratteristiche dell’attività svolta non rendono necessaria la presenza in sede. Le donne, che presentano profili mediamente più qualificati degli uomini, potrebbero essere quelle più direttamente interessate dallo smart working: su 100 occupate, 26 potrebbero lavorare da casa, mentre tra gli uomini la stessa percentuale si ferma al 17,2%. Si tratta di un valore significativo, soprattutto alla luce delle restrizioni che a settembre accompagneranno la ripresa delle attività scolastiche e delle difficoltà che tante famiglie, e in particolare le donne, incontreranno nel gestire impegni di cura e assistenza.
Ovviamente la possibilità di lavorare a distanza varia considerevolmente a seconda dei settori d’occupazione. Servizi di informazione e comunicazione (81,7%) seguiti da finanziari e assicurativi (76,1%) sono in assoluto gli ambiti dove lo strumento potrebbe essere più diffuso, arrivando ad interessare più di 3 lavoratori su quattro: come noto, del resto, già da prima dell’emergenza sanitaria, erano questi i settori in cui erano state avviate le esperienze più significative.
Anche la pubblica amministrazione rappresenta un terreno importante di applicazione ma, contrariamente alle previsioni normative, ad essere realmente occupabili in modalità agile sarebbe solo il 36,5% dei dipendenti. Se si esclude tutto l’ambito dei servizi avanzati, ad alto livello di knowledge workers, le potenzialità di applicazione del lavoro agile pur diminuendo, risultano significative: nell’industria legata alle produzioni del made in Italy, lo smart working potrebbe interessare quasi due lavoratori su dieci (18,6%); simile percentuale si riscontra nei settori commerciali e della logistica; mentre più basso (3%) è il valore nel turismo e nella filiera del tempo libero, cosi come in tutto l’ambito della white economy (servizi sanitari, sociali e assistenziali, 11,4%) dove le tante professionalità occupate, spesso a diretto contatto con l’utenza, non possono prescindere dalla presenza fisica sul luogo di lavoro.
La crisi che stiamo vivendo, può rappresentare l’occasione di un salto di paradigma importante, per adeguare l’organizzazione e la legislazione del lavoro alle esigenze di un’economia molto diversa da quella degli anni 70, quando nasceva lo statuto dei lavoratori. La digitalizzazione, la “delocalizzazione” delle prestazioni lavorative – dai co-working alle piattaforme online – l’ibridazione crescente tra lavoro autonomo e dipendente, stanno cambiando la realtà del lavoro, in Italia come ogni altra parte del mondo, in direzione di una crescente responsabilizzazione dei lavoratori e orientamento al risultato.
Lo smart working rappresenta un tassello importante di questa trasformazione, a patto che lo si intenda non come semplice strumento di “delocalizzazione” del lavoro, ma come un modo nuovo di guardare alla prestazione lavorativa, in un’ottica di risultato più che di ore “da passare al lavoro”. Solo cogliendo il significato epocale di tale trasformazione, e innovando con esso cultura e organizzazione del lavoro, l’esperienza di questo periodo potrà essere messa a valore per ripensare un sistema lavorativo più responsabile, coeso e produttivo. Di contro, il rischio di voler incardinare lo smart working in schemi inattuali rispetto alla realtà che avanza, o peggio, confinarlo in una logica di emergenzialità e farne uno slogan bandiera vuoto di contenuti, disperderebbe ogni occasione di rinnovamento del lavoro in Italia: occasione che l’emergenza covid ci ha lasciato come grande opportunità.