Città sommerse. Bisogna cambiare i modelli di intervento urbanistico

di Giuseppe Roma.

Italia sommersa, oltre che dalle acque, da un modo arretrato di gestire e considerare il territorio, dall’idea sbagliata che il consenso si ottiene sbandierando le cifre stanziate e non le opere realizzate. Proveniamo da una cultura “appropriativa” del suolo tipica dei paesi di più recente arricchimento, dove la proprietà della casa costituisce il principale patrimonio familiare. Per alcuni decenni, a partire dalla ricostruzione, un patto non scritto ha consentito di costruire con pochi vincoli, secondo le necessità sociali e gli appetiti imprenditoriali. Poi, il pendolo, almeno legislativamente, si è spostato sul versante opposto.

Le regole sulla carta sono diventate molto restrittive, ma hanno offerto alla politica l’opportunità di distribuire premi e punizioni, sulla base delle convenienze di potere. E come conseguenza abbiamo avuto l’urbanistica contrattata, cubature in compensazione deliberate dai consigli comunali, progetti e aree da valorizzare a richiesta di questo o quel gruppo di pressione. Un quadro che ha indebolito il versante tecnico e soprattutto l’ordinaria gestione della città. Dissesto idrogeologico, abusivismo, degrado con i loro ricorrenti drammatici eventi catastrofici, possono essere riportati sotto controllo solo se cittadini e istituzioni uniformano i loro comportamenti al modello di gestione delle città e del territorio prevalente in Europa.

Pubblico e privato assolvono a due fondamentali ruoli. Spetta alle autorità locali tutelare i beni comuni, indicare le strategie di medio periodo, disegnare le reti delle infrastrutture sulla cui base indicare le parti della città che si intendono valorizzare e rigenerare, quelle da salvaguardare o vietare per ragioni di sicurezza collettiva. Ai privati il compito di sostenere questo disegno investendo per offrire abitazioni conformi alle varie tipologie di domanda (si fanno utili anche con il social housing), per realizzare i centri direzionali e produttivi etc. Uno stadio di proprietà può essere utile se è in grado di generare attività e occupazione, ma va localizzato secondo un più ampio disegno del territorio.

Il West Ham, terza squadra di calcio di Londra, ha il suo stadio nell’area di periferia che il comune aveva scelto di rigenerare in occasione dei Giochi. Realizzare grattacieli, riqualificare vecchi quartieri, investire nell’immobiliare è un processo virtuoso se il business è concentrato sulle attività che si andranno a insediare, e non solo su quella meramente costruttiva. Quando gli investitori devono ottenere un rendimento dalla realizzazione di immobili, rimanendone proprietari, costruiscono bene e fanno le manutenzioni per non svalutare i propri beni. Altrettanta cura va posta per le strutture pubbliche. E’ così che la città diventa una ricchezza collettiva e il suo ordinato sviluppo un interesse condiviso. In fin dei conti, la cosiddetta “Spina” di Torino o Porta Nuova e City Life di Milano seguono questo schema. Sarebbe bello estenderlo a tutta l’Italia.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *