Chiude l’ultimo simbolo FIAT

di Giuseppe Roma.

Solo pochi cultori della storia industriale italiana e delle vicende urbanistiche torinesi avranno notato la messa in vendita, da parte di Stellantis, della palazzina ex uffici Fiat in Via Nizza a Torino. Un evento, tuttavia, emblematico dei nostri tempi caratterizzati da una progressiva perdita d’ identità da parte di grandi imprese che vogliano resistere alla turbo-competizione del mercato globale. Spostato il cervello aziendale fuori d’Italia, saltato il ruolo direzionale di Torino e conseguentemente svuotata la “palazzina” probabilmente non c’era altra scelta. E’ però opportuno non disperdere la memoria di quei luoghi che di storia ne hanno tanta.
Il Lingotto segna l’affermazione della Fiat. Costruito fra il 1916 e il 1926 è un edificio straordinario, in cemento armato con la pista di prova sul tetto. Lungo 507 metri è più del doppio della manica lunga del Quirinale estesa 215 metri. Dismesso dalle attività industriali nei primi anni ’80, a partire dal 1985 viene completamente rigenerato e destinato a funzioni metropolitani da Renzo Piano, su un preciso input dell’avvocato Agnelli, la cui determinazione superò le molte resistenze della città. A Torino, una corrente di pensiero, infatti, pensava si dovesse abbattere Lingotto come segno di liberazione dell’oppressione operaia. Ma la ragione profonda per cui Gianni Agnelli impose questo intervento ha radici sentimentali. L’avvocato voleva riportare nella “palazzina” la direzione della Fiat, nel frattempo spostata nei sontuosi limitrofi uffici di Corso Marconi,10 (al 20 l’ingresso per gli impiegati) perché lì era cresciuto accanto al nonno cui era legato da un profondissimo rapporto affettivo. Il legame rimane anche ora visto che gli Elkann riporteranno i pochi uffici rimasti a Torino nella vecchia abitazione del senatore Agnelli, bisnonno il cui ricordo si colloca ormai lontano nel tempo e forse anche nel cuore.
Nessuna seria morale si può trarre da questa sintetica storia, se non che l’Italia industriale del secolo scorso manteneva, anche simbolicamente, uno stretto legame con la sua evoluzione passata. Era visibile una relazione fra gli interessi imprenditoriali e i propri valori, per quanto non necessariamente condivisi da tutti. Il primato di un’economia di scambio e rapida comunicazione, mobile e spesso senza volto, ha completamente modificato il rapporto fra impresa e territorio, e ridisegnato le geografie produttive sulla base di parametri che poco hanno a che vedere con le persone, i saperi e le comunità nazionali. E questo distacco ha probabilmente una particolare influenza su quella serie di fenomeni riconducibili al populismo ribelle delle secessioni e delle reazioni emotive.
Giuseppe Roma

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