Quasi un milione di occupati persi con la pandemia

di Giuseppe Roma.

Dal primo gennaio Eurostat ha introdotto nuove regole per rilevare le forze di lavoro, in particolare escludendo dagli occupati i dipendenti da più di 3 mesi in cig e gli autonomi con attività sospesa da più di un trimestre. Il risultato fotografa in modo più realistico la situazione del mercato del lavoro, ma al tempo stesso certifica una situazione sociale a dir poco drammatica. La vecchia serie di dati segnalava, a dicembre 2020, 456mila occupati in meno sul 2019. Con i nuovi criteri, a febbraio 2021, il saldo negativo raddoppia, raggiungendo ben 945mila persone senza lavoro rispetto ai 12 mesi precedenti. In particolare, il tasso d’occupazione femminile perde quasi due punti rispetto al 2020, scendendo al 47,7%. Pur con tutte le fluttuazioni congiunturali cui sono soggetti i dati mensili, lo scenario che emerge sembra più preoccupante del previsto. La cig spiega solo parzialmente l’effetto Covid-19 sul lavoro.

La maggior parte delle perdite riguarda, infatti, posizioni meno protette come i dipendenti a tempo determinato e gli autonomi. In un anno i “garantiti” sono calati dell’1,5%, i precari del 12,8% e gli indipendenti del 6,8%. Questa emorragia implica un inevitabile impoverimento del paese, ma ancor di più una pericolosa disgregazione sociale. Perdere il lavoro vuol dire, in Italia, trovarsi senza punti di riferimento, forse con qualche ristoro o aiuto parziale, ma in assenza di strumenti per tornare a essere occupati. Pur non potendo stabilire esattamente cosa succede a chi viene licenziato o chiude un negozio, i dati restituiscono una prospettiva di emarginazione. Infatti, nell’ultimo anno, in parallelo alla diminuzione degli occupati crescono gli inattivi di 717mila unità e le persone alla ricerca di lavoro di 21mila. Pur con probabili passaggi interni alle due diverse condizioni, la crisi produttiva sembra provocare un pericoloso stallo delle energie collettive.

Abbiamo due strumenti per contrastare questa pericolosa deriva: più investimenti produttivi e più strumenti di accompagnamento al lavoro. Due opportunità rese possibili dalle risorse finanziarie a disposizione, ma molto incerte per la gran mole di attività pratiche necessarie a raggiungere i risultati attesi. Ammettendo che si crei nuova domanda di lavoro, sono necessarie strutture e personale in grado di offrire assistenza su misura a ogni singolo disoccupato per orientarlo e collocarlo, definendo anche nuovi percorsi di carriera con la formazione, rendendo possibile la mobilità, anche attraverso nuove soluzioni alloggiative e così via. Dietro le cosiddette politiche attive, c’è soprattutto organizzazione e fatica, servizi e motivazione. Con un impegno che non può essere solo pubblico, ma anche del terzo settore, cooperativistico e imprenditoriale.

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