Figli e lavoro, occupazione femminile contro la denatalità

di Giuseppe Roma.

Non basta preoccuparsi una volta l’anno della grave crisi demografica del nostro paese, e restare completamente inerti negli altri 364 giorni. Le dinamiche naturali e migratorie agiscono nel lungo periodo e richiedono politiche che abbiano lo stesso passo. Ma, da noi, il dibattito politico ha sempre corto respiro, risponde – spesso emotivamente – ai problemi come vengono proposti dagli eventi. Basti pensare al dissesto sismico o all’emergenza sbarchi. Anche questa volta, non mancano le proposte del giorno dopo: detassiamo il lavoro femminile, piano per gli asili e i servizi, aiuti fiscali alle famiglie…
Sembra ci sia assuefazione all’idea di un paese della terza età, senza rimpianti per la mancanza di bambini, e con una ridotta sensibilità sulla portata depressiva del mancato ricambio generazionale. Una specie di malthusianesimo sommerso che vede nella riduzione della popolazione un possibile riequilibrio con la scarsa capacità di generare risorse. Non si tiene conto dell’effetto incrociato fra denatalità e longevità, che rende alla lunga insostenibile il sistema. Per cercare uno spiraglio di luce dovremmo partire proprio dalla cultura collettiva, ancora impelagata in un’assurda disputa ideologica che attribuisce a una parte l’attenzione alla procreazione e alla famiglia, e a un’altra le politiche per il welfare. La desertificazione demografica è, in realtà, una questione sociale di prima grandezza non più riconducibile ai soli comportamenti e valori individuali. Se manca l’energia tutto si ferma indipendentemente se la si produce col metano o con il vento.
A partire dal 2008 la crisi ha accelerato un regresso già in atto, fenomeno in tutta l’Europa, eccetto la Germania che dal 2011 ha visto aumentare i nati. C’è, infatti, un rapporto diretto fra natalità e partecipazione al lavoro delle donne, in quanto tendenzialmente vuol dire doppio reddito familiare e diritti per la maternità. Ma in Italia la domanda di lavoro scarseggia per giovani e donne, il sistema produttivo è fiacco e gli investimenti ridotti nel privato e nel pubblico. Se non si riparte da qui, concentrando tutte le energie sulle condizioni strutturali che rendono conveniente l’Italia, anche quella demografica sarà una crisi che genera solo un’impotente lamentazione.

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