di Stefano Sampaolo – Rur
Nonostante i profondi cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi decenni, l’obiettivo di fondo delle politiche abitative rimane, in fondo, invariato: quello di garantire a tutte le famiglie una sistemazione abitativa dignitosa, il più possibile rispondente alle proprie esigenze (di spazio, di localizzazione, di mobilità), ed economicamente sostenibile, cioè i cui costi non superino il 25-30% del reddito familiare.
Ma per ragioni diverse dal passato nelle grandi aree urbane tale obiettivo appare oggi più difficile da raggiungere.
Le dinamiche dei valori immobiliari nelle grandi aree metropolitane hanno determinato per molte famiglie il superamento di tale soglia, mentre i redditi in generale non hanno prospettive di crescita ma di precarizzazione.
Se la mission di fondo delle politiche della casa resta invariata, quello che si è profondamente modificato è invece il quadro della domanda. Alla base di tale cambiamento vi sono alcuni evidenti fenomeni sociali:
– la crescente fragilità economica di ampie fasce di popolazione. Non solo la soglia del 30% diventa più bassa, ma c’è anche un problema di continuità/stabilità dei redditi;
– l’aumento del numero di famiglie, accompagnato dalla forte riduzione del numero medio di componenti. A livello nazionale dal 2001 al 2009 siamo scesi da 2,6 a 2,4 componenti in media, ma nelle città del nord-ovest siamo ormai a 2,0 componenti. Semplificando si potrebbe dire che oggi servono più case, ma non più stanze;
– il peso rilevante assunto dalla componente straniera (poco meno di 5 milioni di immigrati), un segmento di popolazione a basso reddito che ha oggi una maggiore prospettiva di radicamento e che preme sul mercato privato degli affitti, ma con meno diritti riconosciuti e meno risorse familiari.
Se ci spostiamo invece sul piano dell’offerta il quadro appare assai poco dinamico e ancora sostanzialmente polarizzato in tre segmenti, di dimensioni assai diverse:
– una grande area maggioritaria (81% delle famiglie) che è quella della proprietà (68,5%) e dell’uso gratuito (12,5%), un’area che è cresciuta come mai in precedenza;
– un’area dell’affitto privato corrispondente al 13,5% delle famiglie, in cui il ruolo degli investitori istituzionali, a seguito delle dismissioni, è diventato poco rilevante a fronte di moltissimi piccoli proprietari;
– una piccola area, quasi residuale, dell’affitto sociale. Si tratta di un’anomalia europea, sia per la sua bassa incidenza (appena il 5% delle famiglie), sia per il livello dei canoni (80 euro in media). Data la scarsità di risorse pubbliche assegnate ed il mancato turn-over, si tratta di un segmento di offerta che oggi presenta limitatissime possibilità di accesso a nuovi utenti. L’offerta di nuovi alloggi di edilizia sociale pubblica è da tempo ridotta al lumicino, mentre in attesa vi sono 650mila domande di assegnazione di un alloggio popolare giacenti.
Come è noto dal punto di vista dell’utenza l’area dell’affitto di mercato è quella maggiormente in sofferenza, anche perché in questi anni successivi alla riforma del settore (legge 431/1998) sono risultate ben poco incisive le misure che avrebbero dovuto contenere l’insostenibile ascesa dei canoni di mercato.
Se un lato infatti la modalità dell’affitto concordato ha nei fatti un peso quasi trascurabile, dall’altro il Fondo Sociale per l’affitto, creato per aiutare le famiglie più in difficoltà, ha subito negli anni una fortissima riduzione. Basti ricordare che, pur a fronte di circa 400mila domande che vengono presentate ogni anno, si è passati dai 360 milioni di euro dell’anno 2000 ai 144 milioni del 2010. Nel 2011 il Fondo sarà quasi cancellato: sono stati stanziati infatti solo 33,5 milioni di euro.
Peraltro il mercato della locazione in molte città è “drogato” ed assorbito dalla domanda temporanea. Basti ricordare che quasi la metà (47,3%) degli studenti universitari vengono da un’altra provincia o un’altra regione rispetto a quella dove ha sede l’università.
A testimoniare tale criticità sono i dati sugli sfratti: oltre 61mila quelli emessi nel 2009 (+17,6% rispetto al 2008), in pratica uno sfratto ogni 400 famiglie. Di questi ben l’84% sono stati emessi per morosità (erano il 26% nel 1990).
Se il quadro appare sempre più critico, tuttavia vanno segnalate alcune novità recenti sul fronte delle politiche della casa che in futuro potrebbero produrre effetti positivi. Sul fronte dell’allargamento dell’offerta, se le iniziative avviate procederanno come previsto, potrà emergere infatti una quarta area, quella del social housing legata al sistema integrato di fondi immobiliari previsto dal Piano nazionale di edilizia abitativa. Un’offerta nuova, con canoni di locazione che si attesteranno comunque sui 500-600 euro/mese, cioè ad un livello più basso rispetto agli affitti concordati, ma a grande distanza dai canoni dell’edilizia sociale pubblica.
Sul fronte fiscale si attende per il 2011 l’introduzione effettiva della cosiddetta “cedolare secca” che darà la facoltà ai proprietari di optare per una tassazione separata al 20% dei redditi da locazione. Un provvedimento atteso da tempo anche per combattere l’enorme evasione fiscale che connota il settore ma che, nella versione attuale, ha il limite di non essere accompagnato da analoghi incentivi per gli inquilini e di non essere legato a misure di contenimento degli affitti come il canone concordato.
In ogni caso la direzione giusta è quella di lavorare sulle condizioni per un migliore utilizzo dello stock abitativo (ricordando che vi è un grande patrimonio sfitto e sottoutilizzato da reimmettere in circolazione) e per una maggiore diversificazione dell’offerta. Una diversificazione che deve riguardare anzitutto:
– i costi dell’abitare, per dare la possibilità alle famiglie, in base alle proprie disponibilità, di trovare la giusta soluzione e di poter intraprendere nel tempo delle vere “carriere abitative” dalla casa a basso costo in su;
– le tipologie edilizie, in funzione delle variegate esigenze e dei mutamenti sociali: in generale oggi servono case più piccole che in passato, dato che il profilo delle famiglie è cambiato, ma pensate diversamente, con ad esempio alcuni servizi comuni.
Per far fronte alle diverse e nuove domande di casa, è indispensabile ripensare le logiche di intervento per l’abitare. Certo a rendere complesso e difficile il compito, giocano contro alcuni vincoli importanti: la scarsità di risorse pubbliche, anzitutto, ma anche la necessità di contenere nuovo consumo di suolo (per ragioni ambientali ma anche economiche, data l’onerosità di infrastrutturare nuove aree di espansione), come anche l’urgenza di reintervenire sul patrimonio esistente, una grande risorsa oggi mal utilizzata che richiede un recupero di qualità e di funzionalità.
Servono insomma politiche diversificate, flessibili, articolate sul territorio, in grado di rispondere a diversi tipi di bisogno e necessariamente basate su un nuovo sistema di operatori più ampio, che comprenda anche il settore privato e che veda la nascita di società immobiliari di tipo europeo anche in Italia.
E serve anche un rilancio per soggetti come gli ex Iacp, le attuali Aziende casa, che non solo gestiscono un grande patrimonio (773mila alloggi), ma conoscono il territorio e che oggi nei casi migliori sono impegnate su diversi fronti, tra i quali il risparmio energetico degli edifici, progetti per particolari categorie (anziani, studenti), l’azione di mediazione sociale al fine di prevenire e contenere la conflittualità fra gli abitanti.
22 Dicembre 2010
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Centri antichi: una ricchezza italiana annegata nella città contenitore
di Giuseppe Roma, Direttore Generale Censis
Salvaguardia continua
Il tessuto storico delle nostre città rappresenta certamente una straordinaria ricchezza per il nostro paese, dal punto di vista culturale ed economico. E’ certamente merito degli urbanisti, degli architetti, degli amministratori che diedero vita all’Ancsa (come ad altre associazioni) se questo straordinario patrimonio si è conservato ed è stato valorizzato, molto meglio che altre parti del nostro territorio. La cultura architettonica e urbanistica italiana può vantare certamente un primato a livello internazionale per aver creduto nel restauro, nella riqualificazione e la valorizzazione dei centri storici, prima e meglio degli altri paesi europei.
Trattandosi del cinquantenario dell’Ancsa mi tornano in mente, non tanto gli anni ’60 di cui non ho ricordo per ragioni generazionali, ma gli anni ’70 e ’80, quando le esperienze e il recupero dei centri storici avevano raggiunto già una rilevante consistenza nel nostro paese. Mi occupai, da visiting fellow in Olanda, del recupero urbano dei centri storici ad Amsterdam e a Rotterdam, rimanendo del tutto impressionato dai modelli distruttivi che venivano utilizzati in quel paese, da tutti noi considerato culla dell’urbanistica. Il famoso Stadsvernieuwing olandese era niente altro che l’abbattimento e la ricostruzione di parti storiche della città, magari avendo attenzione, nella forma architettonica del nuovo, a riprodurre quelle originarie. Niente a che vedere con il meticoloso studio delle pre-esistenze effettuato nei nostri centri storici dai tanti progettisti e tecnici, interessati a reinterpretare, in chiave moderna, un patrimonio e soprattutto un contesto urbano da modernizzare, ma nel suo rigoroso mantenimento (anche fisico).
Il recupero dei centri storici rappresenta un’eccellenza italiana, ma un tale primato, come tutti i primati, hanno la necessità di rigenerarsi continuamente, offrendo idee, soluzioni e progetti adeguati ai problemi dell’oggi.
I problemi dell’oggi
Completare l’opera. Intanto il processo di recupero fisico e di valorizzazione culturale del nostro patrimonio storico non può dirsi totalmente compiuto, perché ancora in molte aree del paese il degrado, l’incuria e la speculazione caratterizza parti significative del patrimonio storico-artistico. Grandi centri storici, penso a Napoli o Palermo, hanno solo avviato un’opera di bonifica e salvaguardia; fra le città del sud non sono molte quelle che possono dire compiuto un ciclo del restauro, integrato fra edifici e tessuto urbano. A questo proposito ricordo ancora un colloquio, vecchio ormai di più di dieci anni, con Mario Fazio a proposito di una stima da me realizzata sul patrimonio a rischio di crolli nel nostro paese, peraltro accolta quasi ufficialmente in Parlamento. Avevo incluso anche il patrimonio storico a rischio e con Fazio ribadivo la necessità di non considerare culturalmente arretrato il mantenimento di una importante funzione di stimolo e di denuncia, anche da parte dell’Ancsa, della stessa messa in sicurezza di tessuti storici importanti, oltre che di singoli pezzi della città antica. Credo naturalmente che sia importante trasferire, come si fa ormai da anni, l’originaria cultura di valorizzazione e del recupero del tessuto storico, al più generale problema dell’intervento sulla città esistente. Mi chiedo però se non esiste una specificità di problemi che riguardano ancora quello che, con linguaggio forse inadeguato, continuiamo a considerare noi tutti “il centro storico”. Ad esempio il problema della mobilità si è esaurito nella pedonalizzazione, senza un’adeguata rivisitazione del trasporto urbano complessivo. Risultato che la pedonalizzazione ha segnato il passo e il dominio del trasporto individuale – sia esso con auto o con scooter – continua in tutti i centri storici italiani ad essere fortemente presente. In generale lo spazio pubblico è continuamente eroso da funzioni commerciali aggressive, che lo occupano e lo degradano, snaturando il senso dei luoghi e la possibilità di fruizione.
Il centro annegato nella città contenitore. La città è oggi uno spazio allargato, tenuto insieme dalle relazioni. Non ha più un centro e una periferia, ma ha una urbanizzazione indifferenziata, con diverse polarità, di cui alcune storiche e altre funzionali. La “città contenitore Milano” ha molteplici centri storici e non solo quello centrato su Brera o Piazza Scala. Persino quello di Piacenza o di Lecco potrebbe essere considerato all’interno di quello spazio metropolitano. In questo senso estendere il metodo interpretativo che è stato alla base del recupero dei centri storici nei decenni passati ad ambiti metropolitani dilatati, è certamente un’operazione da compiere.
Una ricchezza per pochi. Il patrimonio residenziale storico (antecedente al 1919) urbano ha un rilevante valore economico, stimato dal Censis in 947 miliardi di € (valori 2009); il 37% di questa ricchezza patrimoniale è concentrata nel Nord-Ovest, il 19% nel Nord-Est, il 25% nell’Italia Centrale e il 19% nel Mezzogiorno (vedi sul sito del Censis www.censis.it i dati relativi sia al valore del patrimonio, sia i prezzi di vendita nei centri storici delle grandi e medie città; con le variazioni fra 1999 e 2009 e il differenziale con le aree periferiche). Se si aggiunge il patrimonio destinato ad uffici e a negozi, quel valore può decisamente essere moltiplicato almeno per tre. Questa valorizzazione ha, però, creato una forte ineguaglianza di tipo sociale. Il centro storico diventa ghetto per ricchi?
17 Settembre 2010