Inclusione urbana: alcune parole chiave

Inclusione urbana: alcune parole chiave

Il concetto di inclusione urbana viene scomposto in una serie di questioni chiave che riflettono i diversi punti di vista di studiosi, amministratori e attivisti che si sono riuniti per discutere del tema alla conferenza “Rethinking Urban Inclusion: Spaces, Mobilisations, Interventions” tenutasi lo scorso giugno presso l’Università di Coimbra.

di Carlotta Fioretti

 

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Quella dell’inclusione è una retorica potente che ha dominato l’Europa degli ultimi decenni, in particolare nei contesti urbani. L’aggettivo che più di sovente si accosta a inclusione è sociale; tuttavia, è consolidata l’idea che lo spazio, in particolare lo spazio urbano giochi un ruolo fondamentale nei processi, nelle dinamiche e nelle politiche intese a promuovere l’inclusione che diventa così urbana. È proprio l’inclusione nella sua declinazione urbana ad essere al centro della conferenza internazionale “Rethinking Urban Inclusion: Spaces, Mobilisations, Interventions” tenutasi a Coimbra in Portogallo dal 28 al 30 giugno 2012, su iniziativa del Centro de Estudos Sociais (CES) dell’Università di Coimbra e del Committee on Social Inclusion, Participatory Democracy and Human Rights (CISDP) dell’associazione internazionale United Cities and Local Governments (UCLG).

Il termine “inclusione” al pari di molti altri key words dell’agenda urbana (competitività, sostenibilità, creatività) è elusivo, si presta a molte interpretazioni e utilizzi. Tuttavia, come ha ricordato a Coimbra la sociologa e urbanista francese Marie-Hélène Bacqué nella plenaria “The sounds of words: other ways of spelling changes in urban policies”, le parole contano. Ripercorrere dunque le parole che hanno caratterizzato quest’incontro internazionale può servire a delineare l’idea di inclusione urbana come è emersa dal dibattito che ha visto coinvolti importanti studiosi provenienti da diverse discipline ma anche amministratori pubblici, attivisti ed esponenti dell’associazionismo.

La prima parola ricorrente nei tre giorni di conferenza è stata diversità. La diversità è una delle caratteristiche determinanti dei contesti urbani, ed è uno degli aspetti che oggi richiamano con più forza il tema dell’inclusione. Il diverso nella città è spesso escluso, un’esclusione che insiste su più dimensioni, economica, sociale, politica, e sicuramente anche spaziale. Lo spazio urbano è l’arena nella quale si negoziano vari tipi di diversità: linguistica, di razza, cittadinanza, cultura, classe, genere e orientamento sessuale. I contesti in cui si rivendica il diritto alla diversità sono quelli delle metropoli occidentali, in cui molte questioni pur essendo discusse da tempo rimangono ancora irrisolte.

Ci sono poi contesti nuovi, cioè le città dei paesi in via di sviluppo dove il discorso sulla diversità e le lotte contro le discriminazioni assumono oggi un significato diverso. Così ad esempio la ricercatrice Fadma Ait Mous ha raccontato dei diritti delle donne nella nuova costituzione del Marocco, mentre Gautam Bahn del movimento per i diritti queer in India. Quello che emerge da queste testimonianze è che le istanze sollevate in questi contesti non possono essere interpretate e portate avanti seguendo i modelli occidentali, ma hanno bisogno di nuove chiavi di lettura.

Come abbiamo detto l’inclusione urbana si gioca su più dimensioni, e uno dei livelli fondamentali di cui si è parlato a Coimbra è l’inclusione degli abitanti nei processi decisionali relativi al proprio territorio: detto in altre parole la partecipazione. Secondo James Holston, autore di Insurgent Citizenship (2009), la partecipazione è un concetto confuso e abusato che oggi necessità di una riflessione critica. La partecipazione è infatti ancora poco teorizzata nonostante sia largamente diffusa, nonché utilizzata in maniera diversa all’interno di diversi “political regimes”. Per capirne il significato attuale, Holston guarda alle sue origini, alla Grecia antica in cui partecipazione indicava il potere delle persone organizzate in comunità (neighbourhoods). É così ancora oggi? In quali contesti? Lo è ad esempio per quanto riguarda la costruzione fisica della città? Qual è il rapporto tra architettura e partecipazione?

Holston in realtà sostiene che per definizione l’architettura non riesce ad essere veramente partecipata: essa tende all’utopia e per questo si discosta da quella che è la contraddittoria realtà sociale della città. Nella città il potere delle persone si esercita in maniera più efficace dal basso, tramite pratiche informali. Con l’autocostruzione la gente ha fatto sì che la propria presenza nella città fosse imprescindibile.

Un altro sostenitore delle pratiche del quotidiano che è intervenuto alla conferenza è AbdouMaliq Simone, autore di City Life from Jakarta to Dakar: Movements at the Crossroads (2009). Guardando in particolare al sud del mondo, Simone ritiene che in molte circostanze sono le pratiche più che le politiche ad essere il vero motore della trasformazione della città. Così l’informale costituisce una base sia per la residenza (autocostruzione) sia per le attività di un’ampia fetta di popolazione. Ma l’autocostruzione, l’informale e le pratiche sono sempre qualcosa di positivo? Possono prescindere dall’istituzione, dalla governance, dalle politiche?

Le pratiche del quotidiano costituiscono sicuramente un’enorme ricchezza per le città del sud del mondo, ma non possiamo dimenticarci che quegli stessi luoghi sono anche scenario di violenza e di morte, come ha ricordato Teresa Caldeira nel suo intervento su giustizia e movimenti collettivi negli slums brasiliani. In quel caso le pratiche e l’informale sembrano non essere in grado di risolvere situazioni di grave conflitto e criminalità. Il problema sembra risiedere nel fatto che il potere giudiziario criminalizza e delegittima gli abitanti degli slums, rendendo l’azione dei movimenti collettivi troppo fragile e impotente.

Si introduce così un altro tema portante del convegno, cioè quello dei movimenti collettivi. Sono molti i movimenti per la “giustizia spaziale” e più in generale quelli che si creano all’interno delle città legati a rivendicazioni di vario tipo: dalla casa alla terra, dalla cittadinanza all’ambiente. I movimenti urbani si rivolgono generalmente al governo, nel nome di un credo comune basato sul principio di un eguaglianza universale nel diritto alla città. Accanto ai movimenti più tradizionali si è parlato anche di quelli nati recentemente a partire dagli sconvolgimenti economici e politici che hanno caratterizzato questi ultimi anni: dalla primavera araba alla crisi finanziaria. Si è così discusso in particolare degli “Los Indignados” e di “Occupy” che pur essendo movimenti che agiscono alla scala globale e che travalicano le questioni più propriamente urbane, tuttavia danno grande importanza alla questione dello spazio pubblico: l’atto di reclamare lo spazio pubblico diventa una metafora per reclamare il potere.

A Coimbra, hanno parlato di questi temi direttamente i protagonisti dei movimenti collettivi, all’interno di tavole rotonde che hanno visto coinvolti anche ricercatori e amministratori. È stata data voce a rappresentanti di movimenti civici come Luís Sousa dell’associazione Pro Urbe, Patrícia Miguel di Transição Coimbra (un’associazione che promuove la permacultura) nonché rappresentanti dell’Assembleia Popular de Coimbra.

Movimenti collettivi diversi, ma con un unico comune denominatore: il bisogno di inclusione e giustizia. Questa secondo Robert Bullard, preside della Barbara Jordan-Mickey Leland School of Public Affairs presso la Texas Southern University, considerato da molti il padre della environmental justice, deve essere il perno di ogni discorso sullo sviluppo e anche sulla sostenibilità. Bullard dipinge un quadro delle città statunitensi in cui se da un lato la diversità (etnica, di classe ecc.) è ormai uscita dai ghetti per diffondersi all’interno della metropoli, dall’altro lato il problema della segregazione spaziale non sembra essere ancora risolto. In Nord America c’è ancora una “poverty belt” che riguarda molte delle città sud-occidentali, in cui le varie dimensioni dell’esclusione si sovrappongono: le città più povere sono anche le più segregate dal punto di vista razziale, le meno sane, le meno assicurate, quelle con un maggior numero di problemi alimentari, più affette da disastri naturali, prive di politiche ambientali, meno sicure, meno pedonalizzate, più inquinate.

In conclusione, Bullard afferma che se è vero che oggi si parla molto di smart cities e green communities, e che sono stati fatti molte politiche e molti progetti per aumentare la sostenibilità ambientale delle città, tuttavia è un dato di fatto che l’accesso a quartieri sani, sostenibili e verdi non è uguale per tutti, in particolare negli Stati Uniti. Il problema ambientale deve essere considerato anche come un problema sociale.

 

 

16 Luglio 2012

 

 

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The Media of the Metapolis. La ricerca urbana a confronto con la società della conoscenza 

 

Torna il terzo appuntamento del progetto Media City alla Bauhaus-Universität di Weimar, in cui si parla della relazione tra i media e la città: come cambia la città sotto l’influsso dei nuovi social media e delle innovazioni tecnologiche? Come si può sviluppare un linguaggio adeguato per descrivere la nuova società urbana? Quali sono le sfide della ricerca che indaga la Metapolis?

 

di Claudia Faraone, dottore di ricerca in Politiche territoriali e progetto locale (DipSU, RomaTre)

 

La conferenza internazionale “The Media of the Metapolis. Reflecting the knowledge base of urban research” tenutasi a Weimar dal 24 al 26 maggio 2012, è stato il terzo appuntamento biennale del progetto Media City, di cui le prime due edizioni sono state pubblicate nel 2008 in “Mediacity. Situations, Practices and Encounters” e nel 2010 in “MediaCity. Interaction of Architecture, Media and Social Phenomena”.

L’edizione 2012 è stata anche l’occasione per il secondo appuntamento del Rencontre Francois Ascher che ha aggiunto un ulteriore livello di complessità al già denso tema di riflessione dato dalla relazione tra città e media. La confluenza di questi due incontri ha così specificato un diverso percorso di riflessione per Media City rispetto alle edizioni precedenti, mettendo al centro le teorie di Ascher già dal titolo che si interroga sui “media nella Metapolis”. Il neologismo Metapolis è stato infatti coniato da Francois Ascher e indica la condizione dei territori contemporanei a seguito della terza rivoluzione urbana (dopo quelle del Rinascimento e dell’industrializzazione), che assumono la conformazione di “vaste conurbazioni, estese e discontinue, eterogenee e multipolari”.

L’incontro, organizzato dall’Institut Français d’Urbanisme e dall’Institut für Europäische Urbanistik dell’università Bauhaus di Weimar ha dunque tenuto insieme differenti prospettive di ricerca. Da un lato le idee sullo sviluppo delle città, sulle politiche urbane, sulle pratiche architettonico-urbanistiche che si misurano con un diverso modo di produzione economico e sociale della città e con le innovazioni tecnologiche e infrastrutturali. Di tali temi hanno trattato gli interventi di Elisabeth Campagnac e Rossella Salerno nella sessione congiunta di lecture del mattino del primo giorno. Dall’altro lato si è discusso di interpretazioni teoretiche del rapporto tra i media e la città, delle trasformazioni che questi producono, sia fisiche, sia negli immaginari e nelle narrative. Questo il taglio della keynote lecture di apertura di media studies di Andrew Wood su Omnitopia.

La questione della relazione tra città e media viene ripresa anche da Eckardt nell’introduzione della conferenza “La conoscenza nella metapolis. Strategie contese in una città complessa”. Eckardt approfondisce meglio questa relazione riflettendo sulla base conoscitiva della ricerca urbana, e sulla doppia sfida che la ricerca urbana e di conseguenza l’urbanistica deve affrontare. Da un lato infatti la conoscenza è diventata incerta visto che presuppone una relazione molto più complessa con il mondo ‘là fuori’ che è oggetto di osservazione, analisi e comprensione. Dall’altro è incerta a causa dell’incapacità di etichettare lo sviluppo delle città e delle società con termini come previsione, causalità o effetto.

Alain Bourdoin ha invece riflettuto sulla necessità di lavorare con la semantica e trovare nuovi termini che possano decodificare fenomeni urbani, indescrivibili con il vocabolario in nostro possesso, sforzando l’immaginazione nel coniare nuove metafore d’interpretazione del funzionamento del mondo e dei territori urbanizzati. Nella sua comunicazione dal titolo “What society a city” ha affermato che la ricerca urbana è ancora troppo focalizzata sul “fare” piuttosto che sulla produzione di conoscenza su e nella città.

 

La conferenza si è poi divisa in sessioni di discussione parallele tra i partecipanti che hanno affrontato temi legati al cambiamento della città (presente e futuro) sotto l’influsso dei nuovi social media e delle innovazioni tecnologiche, ma che sono stati anche occasione per presentare progetti intesi a tradurre la nuova realtà urbana in esperimenti artistici, architettonici e urbanistici.

Attraverso i vari interventi tenutisi nei tre giorni della conferenza, ci sono state “inviate” una serie di cartoline tra cui spiccano quelle dagli spazi contestati di Vancouver e Madrid. Nel primo caso, Adina Edwards ha raccontato che nonostante Vancouver abbia la reputazione di una città accogliente e popolare, di fatto è una città molto conflittuale e contestata. Così nel 2002 la coalizione “Woodward’s Squatters and Supporters” ha occupato con un vero e proprio accampamento i tre blocchi intorno al vecchio edificio Woodward nella Downtown East Side per promuoverne la riqualificazione e più in generale avviare un dibattitto sul social housing e le (poche) politiche abitative attuate. Questa azione ha riscosso un grande interesse mediatico sfociato nell’avvio di diversi progetti promossi dalla City Hall. I media diventano importante strumento di ricerca a Madrid, dove Alvaro Sevilla Buitrago racconta le proteste iniziate il 15 Marzo 2011 a Puerta del Sol del movimento de “Los Indignados” da diverse prospettive, analizzando sia i media mainstream come le prime pagine dei giornali sia quelli emergenti come gli hash tag di Twitter.

Gli argomenti sul piatto erano molto vari e articolati, in linea con le tesi di Ascher sulla interdisciplinarietà delle competenze che si misurano con l’analisi e l’intervento sulla città e il territorio. Senza sorpresa quindi, durante i tre giorni della conferenza, i keynote speaker e le loro comunicazioni hanno spaziato dal campo della sociologia a quello dell’architettura, dalla pianificazione urbana ai media e ai cultural studies. Dagli interventi però è emersa una distanza che in alcuni casi è apparsa incolmabile tra i vari approcci disciplinari, il bagaglio di riferimenti e le conoscenze. Pochi sono stati i casi in cui vi è stato uno sforzo di “ampliamento dello sguardo” nel tentativo di tenere insieme diversi registri di ricerca. In questo senso la strada da percorrere è ancora molto lunga, ma un input fondamentale ci è stato sicuramente offerto da Ascher che nel suo percorso di analisi multidisciplinare ha sempre tenuto al centro ciò che riesce a fare da collante: la città.

claudia.faraone@gmail.com

 

 

02 Luglio 2012

 

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Planning and ageing. La risposta dell’urbanistica alle nuove dinamiche demografiche

 

Dinanzi al crescente fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, quali sono le risposte che i policy makers, i pianificatori e gli altri soggetti che operano in ambito urbano offrono a questo crescente segmento di cittadini? Studiosi ed esperti appartenenti a diverse aree disciplinari si sono incontrati per dibattere di questo tema alla V conferenza annuale sulla ricerca in pianificazione del centro di ricerca per il territorio, i trasporti e l’ambiente CITTA.

 

di Viviana Andriola, dottoranda al Dipartimento di Studi Urbani, Roma Tre

 

Il 18 Maggio scorso si è tenuta a Porto la quinta conferenza annuale organizzata da CITTA, centro di ricerca per il territorio, i trasporti e l’ambiente della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Porto. La conferenza, dal titolo “Planning and ageing – Think, act and share age-friendly cities”, aveva come obiettivo quello di portare all’attenzione l’importanza della pianificazione per gli anziani, tenendo a mente i nuovi stili di vita, le aspettative e i comportamenti di queste generazioni di cittadini che esprimono nuovi bisogni e domande.

Ad aprire la conferenza è stata la sessione plenaria che ha visto gli interventi di Mike Biddulph, ricercatore presso la Cardiff University, e di Taner Oc, professore onorario presso l’University College of London. Biddulph, nel suo intervento, intitolato “Liveable streets: a choice for elderly people?”, ha trattato l’importante tema della progettazione degli spazi pubblici attenta all’inclusione della popolazione anziana. In particolare, Biddulph ha illustrato le potenzialità di una strada di una cittadina inglese che, a seguito della sua riprogettazione in woonerf, si è trasformata da luogo di transito a luogo dove sostare e trascorrere del tempo di qualità all’aperto. Nella presentazione “Ageing Population and the City”, il Prof. Taner Oc ha evidenziato i molteplici fattori da tenere in considerazione quando si pianifica per una popolazione che cambia nella sua struttura demografica: le residenze, da rendere maggiormente adattabili al mutare delle esigenze nel tempo; i trasporti, pensati per raggiungere in modo capillare le diverse aree urbane ed evitare l’isolamento delle classi sociali meno mobili; infine un tessuto commerciale e di servizi fitto, tale da rendere più accessibile l’esperienza urbana anche per quei soggetti dalle limitate capacità psico-fisiche.

A seguire si sono avviate quattro sessioni tematiche parallele, ognuna dedicata a un aspetto dell’ampio tema cui la conferenza era dedicata, in cui sono state presentate ricerche redatte da studiosi ed esperti appartenenti a diverse aree disciplinari (architettura, pianificazione, ingegneria, medicina, disegno industriale …): “Politiche urbane e invecchiamento”, “Comunità inclusive: strumenti e approcci”, “Progettare ambienti age-friendly” e “Nuovi paradigmi per le ageing cities“. La multidisciplinarità dei papers presentati ha di certo arricchito in contenuti, approcci, metodologie il tema della conferenza, tuttavia ha reso difficile il confronto all’interno delle singole sessioni, proprio per la profonda eterogeneità dei saggi presentati, che illustravano risultati di studi, esperienze e ricerche a diverse fasi di maturazione.

Particolarmente interessante, nella sessione plenaria conclusiva, il contributo di Henriette Vamberg, architetto dello studio Ghel Architects di Copenhagen. Con la presentazione “Cities for People”, dal titolo di un recente libro di J. Ghel, Vamberg ha illustrato alcuni dei criteri per progettare spazi pubblici di qualità nei contesti urbani. Soprattutto quando si parla di anziani, la qualità degli spazi pubblici assume un ruolo di primaria importanza in quanto l’esistenza di un sistema di spazi pubblici accessibili e fruibili ne consente maggiori livelli di autonomia e mobilità. Tra i molti criteri qualitativi proposti nella progettazione dall’architetto Vamberg e dal suo staff troviamo la creazione di uno spazio che offra protezione dal traffico, dagli agenti atmosferici, uno spazio che trasmetta sicurezza da eventuali crimini, uno spazio confortevole, dove sia possibile sedersi, svolgere diverse attività, e godere di una vista piacevole e di un contesto urbano animato. A seguire Raquel Castello-Branco della Fundação Porto Social ha presentato una progetto di co-housing che ha coinvolto studenti universitari e anziani della città di Porto. Si tratta di un’esperienza, sperimentata anche a Milano (“Prendi in casa uno studente”, Associazione Meglio Milano e Fondazione Cariplo) che cerca di trovare un punto di incontro tra la domanda di alloggi a prezzi sostenibili da parte degli studenti fuorisede a Porto e il desiderio di avere compagnia da parte degli anziani che vivono soli, spesso in ampi appartamenti dagli spazi ormai sottoutilizzati.

Rispetto al contesto italiano, in cui i discorsi relativi all’invecchiamento ricadono spesso nel pur importante ambito socio-sanitario delle attività di prevenzione e delle cure, sembra molto interessante ed attuale questo tentativo di apertura, seppur con tutte le difficoltà emerse, della pianificazione. Se non altro perché queste dinamiche demografiche pongono all’attenzione di progettisti, studiosi e attori urbani questioni urgenti e complesse riguardanti il nostro prossimo futuro. Se nei prossimi cinquant’anni la percentuale della popolazione italiana over 65 passerà dal 20,6% del 2012 al 32.9% del 2062 (previsioni Istat, 2012), necessariamente le scelte della pianificazione avranno a che fare con domande per una città maggiormente accessibile, sicura, confortevole. Una città in cui il ruolo degli spazi pubblici crescerà d’importanza in quanto strumento per agevolare percorsi di vita autonomi nelle fasce di popolazione più anziane.

viviana.andriola@libero.it

 

 

25 Giugno 2012

 

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Se l’architettura è senza equità

 

Vittorio Gregotti, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, commenta il capitolo “Territorio e reti” dell’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis e delinea delle raccomandazioni per un’architettura più attenta allo spazio tra le cose, alla relazione tra progetto e contesto, all’equità

 

di Vittorio Gregotti

 

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L’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese proposto dal Censis ha affrontato (con severità e con precisione) una descrizione della società italiana del 2011 divisa per vari settori: dai processi formativi al welfare, dal lavoro ai soggetti economici dello sviluppo, affrontando anche la questione dei mezzi e dei processi (comunicazioni, governo pubblico, sicurezza, cittadinanza).

È su tutta l’introduzione che sarebbe importante meditare. Introduzione che si conclude affermando che «è illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Seguendone le indicazioni, si possono fare molteplici decreti di stabilità e austerità, ma neppure un tentativo di progetto». Questioni di cui tutti i mezzi di comunicazione discutono animatamente e sovente in modo drammatico.

Qui, però, io vorrei occuparmi, favorito dal particolare interesse che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ha sull’argomento, del particolare problema affrontato nel capitolo «Territori e reti», dedicato nella sua parte centrale alla questione del disegno urbano e della crisi dello spazio pubblico. Due argomenti che sono nel rapporto concretamente affrontati, non solo come significativi di una condizione di difficoltà nelle relazioni tra soggetto e struttura delle società, ma come campo di lavoro (certo tra i molti) di costruzione di un riscatto da quella stessa condizione di disperata difficoltà.

Ma di chi sono le responsabilità di quello stato di crisi? Per quanto riguarda almeno le difficoltà e le modificazioni positive possibili del fatto urbano si tratta di discutere anzitutto delle opinioni delle categorie professionali pubbliche e private a cui è assegnato il compito di proporre e regolare nell’interesse collettivo (si spera) il disegno degli insediamenti. Quindi alla capacità della loro cultura specifica di produrre opere di qualità durevoli, capaci di offrire proposte eque e positive proprio alle relazioni tra soggetto e struttura della società (e qui risparmio di elencare le difficoltà e le possibilità del loro stato attuale di mutazione rapida e globale).

Ma secondo me, come secondo il Censis, un progetto di architettura deve essere comunque cosciente del fatto che lo spazio tra le cose e il «progetto di suolo» è altrettanto importante delle cose stesse. Si tratta di un progetto capace di porsi in relazione con un contesto storico fisico di uso sociale; un progetto capace di misurarsi con regole comuni e comprensibili, le sole che possono dar valore anche alle eccezioni. Non si può dimenticare che l’ideologia architettonica dominante sul piano del successo mediatico di questi ultimi trent’anni ha proposto invece, nei fatti e nelle intenzioni, una cultura opposta a tutto questo. Una cultura dell’eccezione competitiva, della provvisorietà, della promozione della privatizzazione dello spazio pubblico, della bizzarria senza necessità, e riferita solo agli interessi dei gruppi di poteri sociali transitori, contro ogni memoria collettiva del fatto urbano, contro l’idea stessa di luogo, di antropogeografia, per un’idea di flusso che, in qualche modo, sostituisce il terreno di fondazione delle cose.

Ma non meno responsabili sono stati gli enti pubblici che dovrebbero, al contrario, riprendere coscienza della necessità del disegno urbano per guidare le trasformazioni della città; una tradizione di qualche migliaio di anni, a cominciare dagli esempi prodotti dalla cultura della modernità (come quelli della Lione di Tony Garnier o dell’Amsterdam di Berlage e della sua scuola, soltanto per citare due casi). Certamente ridurre la contraddizione tra piano e progetto richiede anche una profonda revisione culturale della nozione di piano, ma anche una coscienza della relazione esistente tra insediamenti e antropogeografia del territorio con la propria storia. Una storia intesa come possibilità per l’architettura o come una minore ossessione sviluppista a favore di un nuovo equilibrio.

Mi rendo comunque conto della difficoltà non tanto operativa quanto culturale di queste raccomandazioni, che peraltro coincidono in molti punti con quelle contenute nello stesso rapporto Censis. E che anch’io mi rappresento come assai lontane dall’attuale moda architettonica postmodernista per una rappresentazione, senza costituzione di distanza critica, della cultura del capitalismo finanziario globalizzato. Una moda così lontana da ogni tentativo di progetto di equità, come segnala la stessa introduzione del rapporto del Censis.

Il corriere della sera

 

 

28 Marzo 2012

 

http://www.corriere.it

 

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