Crisi dell’economia delle costruzioni e rilancio degli investimenti urbani
Stefano Sampaolo fa il punto sulla situazione del settore edilizio in periodo di crisi, individuando i principali problemi che lo riguardano e le possibili vie d’uscita che si aprono per un suo rilancio.
di Sefano Sampaolo
Gli investimenti urbani sono da tempo in fase calante, riflesso diretto della eccezionale crisi in cui versa l’economia delle costruzioni e dell’immobiliare, e per la quale al momento non si intravedono segnali di inversione positiva.
Per il settore edilizio, dopo un ciclo positivo di notevole durata, in cui aveva pesato molto la nuova produzione e l’espansione urbana, dal 2006-2007 si registra un progressivo peggioramento di gran parte degli indicatori fondamentali: crollo dei permessi per costruire abitazioni, dimezzati dal 2005 al 2010, forte frenata degli investimenti pubblici, particolarmente di quelli locali (anche in relazione al vincolo del patto di stabilità).
Unica nota positiva la tenuta degli investimenti in manutenzione straordinaria delle abitazioni (+0,5% nel 2011), il cui peso all’interno del segmento dell’edilizia residenziale è ormai preponderante: si tratta di ben 44,8 miliardi di euro di investimenti contro i 26,2 miliardi del nuovo, cioè poco meno dei due terzi del totale (63,1%). Solo qualche anno fa, nel 2005, il recupero rappresentava poco più della metà degli investimenti in edilizia residenziale (51,5%).
Le stime per il 2012, recentemente presentate dall’Ance, prevedono un ulteriore calo degli investimenti di sei punti percentuali, di poco superiore rispetto a quello registrato nel 2011 (-5,3%).
Anche sul fronte del mercato immobiliare i segnali sono preoccupanti: per il residenziale il 2011 si è chiuso con un volume di scambi di poco inferiore alle 600mila transazioni, cioè ben un terzo in meno del 2006, anno di massima crescita del mercato. Dopo la lieve ripresa del volume di compravendite registrata negli ultimi due trimestri del 2011, nel primo trimestre 2012 il mercato di abitazioni ha fatto segnare un meno 20% rispetto allo stesso periodo del 2011, ciò a fronte anche di prezzi che non hanno registrato ancora flessioni significative. Rimane dunque da smaltire uno stock giacente di alloggi invenduti sulla cui quantificazione vi sono opinioni divergenti ma che è comunque non indifferente.
Dietro questa situazione vi sono certamente una pluralità di fattori diversi, che in questa fase si sommano e si sovrappongono.
Nel comparto delle infrastrutture la crisi della finanza pubblica si accompagna alle tante difficoltà procedurali ed operative che ne connotano la realizzazione in Italia e che fanno da deterrente anche al coinvolgimento di capitali privati, con l’ulteriore criticità legata al fatto che in questa fase il settore bancario è in difficoltà nell’impegnare capitali a lungo termine.
Sul fronte della riqualificazione, al di là del buon successo di quella a scala micro e a carattere diffuso, sono pochi i progetti di portata significativa a scala urbana. Salvo scarse eccezioni, negli anni passati è mancata la capacità di attuare operazioni tali da consentire un reale rinnovamento della città costruita e già infrastrutturata, e si è continuato a seguire la via più facile e meno lungimirante, quella di espandere il perimetro delle aree metropolitane, consumando nuovo suolo e accentuando così le già gravi disfunzioni dei sistemi di mobilità e aggravando i costi di gestione dei servizi urbani.
Infine sul fronte del mercato immobiliare residenziale, pur a fronte di un fabbisogno ancora rilevante e di una tradizionale propensione da parte delle famiglie italiane verso l’investimento abitativo, le condizioni attuali del credito e dei prezzi, nonché l’incertezza delle famiglie sul futuro, scoraggiano e rendono difficile concretizzare tale propensione.
In un quadro così negativamente connotato, in cui per far ripartire il settore servirebbe ripristinare un adeguato livello di investimenti nelle infrastrutture, e rilanciare la riqualificazione a scala urbana attraverso opportuni incentivi, l’azione del Governo, a fronte anche dei vincoli attuali della finanza pubblica, non è certo facile.
Il Decreto Sviluppo ha dedicato una notevole attenzione a questi temi cercando di individuare una serie di iniziative che possano ridare fiducia e rianimare il settore, quali:
– i project bond (tassati al 12,56%) e la defiscalizzazione degli interventi in project per attrarre capitali privati sul fronte delle infrastrutture;
– l’avvio del Piano città e l’istituzione della relativa “cabina di regia” sul fronte della trasformazione urbana;
– il rafforzamento degli incentivi fiscali, passati dal 36 al 50% e con un tetto di spesa raddoppiato (da 48mila a 96mila euro) sul fronte degli interventi diffusi.
Ma, ai fini dell’avvio di un nuovo ciclo di investimenti il tema delle modalità di finanziamento, pur decisivo, non assorbe l’intera gamma delle questioni in gioco: questo sforzo va accompagnato affrontando anche il nodo sia della qualità dei contenuti progettuali sia delle regole e procedure, che devono essere semplificate e rese coerenti ad alcuni pochi e fondamentali obiettivi di modernizzazione sostenibile delle nostre città.
Obiettivi che, alla luce anche dei limiti della stagione precedente, dovrebbero essere ormai chiari a tutti: puntare su un vero riequilibrio modale che liberi lo spazio urbano dalla paralizzante morsa del traffico, ampliare l’offerta di alloggi a basso costo, elevare le performances (energetiche, tecnologiche, ambientali ed urbanistiche) del patrimonio esistente di bassa qualità, proteggere e valorizzare la dimensione socializzante dello spazio collettivo. Apparentemente slogan ormai scontati, ma che per essere realmente perseguiti richiedono segnali di forte discontinuità col passato.
26 Luglio 2012
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Ripartire dal territorio: dare un futuro globale alla metropoli romana
Giuseppe Roma è intervenuto all’assemblea annuale Federmanager Roma – SRDAI “Pensare al futuro per rilanciare il Paese” tenutasi il 7 giugno scorso presso l’Università degli Studi Roma Tre. Nella sua comunicazione, di cui si riporta una sintesi, egli riflette sulla situazione della metropoli romana e sulle strategie e azioni da mettere in campo per rendere Roma un motore per la crescita nazionale.
di Giuseppe Roma, Segretario Generale RUR, Direttore Generale Censis
Il più gran pericolo che corre l’Italia, nella crisi, non è tanto quello di subire un rovescio “catastrofico” (default, uscita dall’euro, fallimenti etc.) quanto di accettare il downsizing,un ridimensionamento di tutto quanto la società italiana ha conquistato in decenni di impegno collettivo, di iniziativa individuale , di avanzamento sociale.
Purtroppo iniziamo già a misurare concretamente gli effetti della crisi, col peggioramento di un rallentamento in atto da più di un decennio . Retribuzioni e redditi disponibili delle famiglie sono in riduzione, consumi e investimenti restano stagnanti, mentre nelle imprese si riducono i dirigenti e nel mercato del lavoro manca una significativa richiesta di alte professionalità.
Il futuro arriva senza accorgercene,in quanto non può semplicemente rappresentare un punto d’arrivo verso cui puntare, non è una meta da raggiungere attraversando uno spazio vuoto. Il futuro vive nel presente, si alimenta di azioni, di idee, di visioni che , se messe in atto, producono le trasformazioni volute, modificano la rotta, realizzano quel clima di fiducia che induce una spirale positiva.
Quali siano le domande è a tutti noto. Dobbiamo tornare a crescere, perché se non aumenta il valore economico che la società italiana produce è impossibile rispondere agli accresciuti fabbisogni di una comunità mutata, a partire dalle dimensioni quantitative (di tre milioni d’abitanti negli ultimi dieci anni) e che continuerà ad aumentare in egual misura da qui al 2020. Più valore prodotto per mantenere una copertura sociale ai bisogni del welfare in presenza di una forte longevità, di un difficile passaggio generazionale, di una consistente popolazione immigrata. Ma anche per realizzare servizi e infrastrutture e per accompagnare l’internazionalizzazione dell’ economia.
Per esser chiari,è necessario più Pil. Ma una tale assertiva presa di posizione non può essere associata ai modelli del passato. Non dobbiamo pensare che i paradigmi del nostro benessere possano restare immutabili, ancorati al solo appagamento consumistico. E’ chiaro che per coniugare crescita e sviluppo sociale, sono altri i parametri da valorizzare: qualità del lavoro e delle relazioni, partecipazione e coinvolgimento di donne e giovani attualmente penalizzati, riduzione dell’impronta ecologica provocata da spreco energetico e impatti inquinanti, miglioramento dell’ambiente e degli spazi di vita urbani, uso di massa delle conoscenze.
Nell’incertezze del momento è evidente che i due punti di possibile concreto aggancio per una strategia di crescita siano l’Europa o le concentrazioni metropolitane competitive e aperte al globale. La prima via ha implicazioni politico-istituzionali, particolarmente vivaci in questo periodo, alla portata solo dei grandi poteri statali.
La seconda via, invece, merita una discussione e un impegno fattivo in ogni realtà ove ricorrano le condizioni per un significativo rilancio,come a Roma.
Sul ruolo di motore economico delle città e sulle nuove configurazioni del modello metropolitano secondo la logica dell’urban container sono ormai numerose le acquisizioni scientifiche (fra gli altri vedi G. Roma – Mega city e comprensori d’eccellenza:le politiche urbane in Italia in Economia Italiana, 3/2009) E’ necessario trasferirle in un campo di applicazioni concrete, cercando di prospettare quali azioni possano rendere l’area metropolitana di Roma un fattore di crescita nazionale.
Relativamente in stallo, ma obbligata a crescere
Non mancano le ragioni di preoccupazione per l’area romana dove, a causa della crisi, si vanno deteriorando le condizioni occupazionali, il tessuto di piccole e medie imprese subisce, pur se in specifici settori, un ridimensionamento, commercio e costruzioni devono far fronte alla contrazione dei consumi e alla riduzione degli investimenti. Se poi l’importante presenza di grandi imprese dovesse ridursi potrebbero venire a mancare – oltre che all’occupazione – quelle competenze manageriali e quelle relazioni indispensabili a una città che non voglia arretrare .
Il dato strutturalmente a maggiore impatto negativo è la diminuzione degli investimenti a Roma e nel Lazio avvenuta negli anni della crisi (a partire dal 2007) ,riduzione superiore alla media nazionale che ha colpito anche settori di punta come le ICT, un’indubbia eccellenza romana.
Gli impieghi passano da 172 miliardi di euro (1°semestre 2010) a 171 miliardi di euro (1° semestre 2011), mentre gli affidamenti in sofferenza passano dal 13% al 44%. Contestualmente crescono le sofferenze dai 4,7 miliardi di euro del 2009, ai 6,4 miliardi del 2010 agli 11.1 miliardi del 2011.
Il diminuito flusso di investimenti è fenomeno molto preoccupante tenuto conto che il sistema territoriale romano vede una rilevantissima presenza di R&D essendo, con la Lombardia, l’area a maggiore presenza di attività di ricerca, indispensabile per rendere più competitiva una metropoli che aspira a diventare un polo globale.
Gli occupati in complesso reggono, ma non è sufficiente. Innanzitutto perché c’è il rischio concreto – un po’ come in tutta Italia – che in realtà si sostituiscano ad addetti qualificati e ad alte professionalità, occupati a bassa qualificazione in particolare nei servizi di assistenza o domestici. C’è, poi, da considerare che la crisi ha colpito temporalmente “a zona” , prima riducendo gli occupati nell’industria manifatturiera, poi il commercio e ora le costruzioni.
L’apertura internazionale è da sempre un problema dell’area romana che resta certamente troppo correlata al mercato nazionale dove si collocano più dell’80% dei prodotti e servizi che vanno fuori regione, mentre in Lombardia tale quota scende al 60%.
L’export di Roma, nonostante una bassa incidenza sul Pil prodotto, sta crescendo. Dai circa 6 miliardi di euro del 2007 nel 2011 si stima sia passato a 7,8 miliardi di euro. Un’ apertura verso l’estero guidata soprattutto dal chimico e farmaceutico che rappresenta il 51% delle esportazioni, poi il settore metalmeccanico e l’elettronica con il 33%, il 4% è attribuito al sistema moda, il 3% all’alimentare e l’1% al lego e arredo. I mercati di destinazione sono quelli tradizionali dell’Unione Europea (48%) e degli Stati Uniti (11%), anche se significativa è la presenza nel Far East con il 12%, in Medio Oriente con 10% e nei paesi europei non UE (9%).
Un’altra forma di “esportazione” è certamente rappresentata dai turismi. Qui la leadership di Roma continua a essere solida, essendo la terza destinazione europea dopo Londra e Parigi, le cui dimensioni economiche e demografiche presuppongo una ben maggiore forza attrattiva. Arrivi e presenze sono cresciuti nel 2010 di circa l’8%, un trend comunque confermato anche per il 2011. L’assenza di adeguate strutture penalizzano,però, la fascia turistica più appetita quella business che, in controtendenza rispetto alla media italiana, vede dell’area romana una significativa contrazione.
Un quadro,quindi, di difficoltà portate dalla crisi, ma che trovano la metropoli romana impreparata a reagire.
Si prospetta un bivio: accettare il declino o prospettare una strategia.
Con Milano, Roma, per dimensioni e caratteristiche, non potrà che seguire nei prossimi anni la scia dei grandi processi portati dalla globalizzazione. La concentrazione metropolitana,abbiamo già affermato, è un portato dell’apertura mondiale dell’economia visto che per essere connessi con il resto del mondo,in termini di collegamenti,apertura culturale e potenza imprenditoriale, è necessaria una certa scala economica, prima ancora che demografica. Roma da qui al 2020 è “obbligata” a crescere, a migliorare, a rinforzare i numerosi fattori competitivi che possiede,rimuovendo alcuni aspetti critici pure presenti, strutturali o legati alla negativa congiuntura economica internazionale.
È una città demograficamente attiva, soprattutto perché (considerata nella sua dimensione più ampia “Comune + Hinterland”) attrae popolazione. Resta una “calamita” territoriale. Certo la longevità porterà a una crescente presenza di anziani, e pertanto sarà indispensabile mettere in circuito tutti gli strumenti per poter garantirne un adeguato supporto: andranno messe in circuito le risorse patrimoniali accumulate,esercitando una maggiore preveggenza assicurativa e sanitaria.
Due settori economici importanti per la città, in particolare quello della salute, filiera da rafforzare e allungare il più possibile, tenuto presente anche del rilevante comparto farmaceutico. Proprio con la farmaceutica rischiamo di fare un auto goal,essendo un settore in espansione che però non trova condizioni ottimali per crescere in Italia. Le cause sono note, tempi e burocrazia penalizzano la ricerca, la gestione del sistema sanitario fa il resto. Da qui i rischi di una presenza che potrebbe ridursi non per fattori di mercato ma per scelte regolative o farraginosità burocratiche.
Non dobbiamo dimenticare che tutte le capitali (Londra,Parigi e Madrid in testa) dovrebbero derivare un vantaggio competitivo dalle possibili integrazioni esistenti fra la presenza di grandi istituzioni e tessuto produttivo. A Roma, nonostante si sia molto ridotto, la PA costituisce ancora un serbatoio occupazionale, invece che un motore ricco di professionalità in grado di sostenere l’innovazione imprenditoriale.
Tuttavia, l’economia romana, ha tutte le premesse per potersi adeguatamente riprendere, non appena miglioreranno le condizioni generali e internazionali. La struttura produttiva è un tavolo a tre gambe: le grandi imprese, campioni europei che spaziano nel globale (ENI, Enel, Telecomitalia, Finmeccanica, Ferrovie italiane, Rai, Bnl) anche se talune ancora troppo legate alla sfera politico-istituzionale, che ne condiziona l’attività d’impresa. Se ci saranno gli auspicati cambiamenti, e la politica saprà ritrarsi, Roma non potrà che beneficiarne. Per il momento se ne vedono più chiaramente le crepe.
C’è poi un’area di imprese medie e piccole, che hanno caratteristiche specialistiche: informatica, elettronica, media e comunicazione, difesa, farmaceutica. Stanno certamente patendo la crisi, ma restano punti fermi in una prospettiva di sviluppo futuro. Teniamo conto che al settembre 2011 la provincia contava 450mila imprese +2,2% rispetto all’ anno precedente.
Terza gamba è costituita dal terziario, un settore molto ampio e composito. Certo preponderante è il commercio e il turismo, che dovrà ulteriormente svilupparsi nei prossimi anni. Significativa è la PA centrale, degli organi costituzionali e dei ministeri, da considerare in relativa contrazione. Infine, crescono significativamente le professioni, le attività tecniche e consulenziali.
Certo il futuro si gioca anche su come evolveranno gli interventi indispensabili a creare un contesto efficiente e valorizzare il notevole patrimonio territoriale esistente.
L‘industria immobiliare, attualmente abbastanza sulla difensiva, ha la necessità assoluta di riproporsi con nuove idee progettuali, nuovi format di strutture d’uso pubblico, programmi diffusi di manutenzione, ristrutturazione e risparmio energetico. Forse nei prossimi anni, sarà possibile mettere mano a ristrutturazioni anche pesanti di quartieri esistenti, innalzandone le densità.
L’altra indispensabile iniezione di fiducia potrà venire dagli interventi infrastrutturali. Passata la fase acuta della crisi finanziaria, è sperabile tornino le risorse necessarie a portare a termine il reticolo di ferrovie regionali e di metropolitane che davvero darebbe slancio allo sviluppo di Roma. Il quadro progettuale esiste e doveva essere concluso per il 2015,ora speriamo che lo sia per il 2020.
Molto giocherà la capacità di Roma di trovarsi un contesto di riferimento, un’area globale confinante da attrarre. Certo quella naturale è il Mediterraneo dalla Francia, ai Balcani, all’Egitto, alla Turchia, all’area del Golfo. Ma non bisogna sottovalutare il possibile riferimento per l’America Latina (tenuto conto del declino spagnolo) o l’Africa emergente (dal Kenia alla Nigeria).
Migliorare le interconnessioni, difendere le professionalità
In conclusione,a Roma restano deboli essenzialmente tre fattori che la distanziano rispetto alle grandi città europee:
– non si riesce a rendere più rapida ed efficiente la modernizzazione della mobilità , soprattutto come rete di base del trasporto pubblico, ma anche come regolamentazione dell’impressionante presenza di auto per abitante di cui detiene il record mondiale; oltre alla mancanza di reti non ha alcuno spazio neanche l’introduzione di quei servizi che rendono accettabile l’organizzazione del traffico (parcheggi, bike sharing, infomobilità, enforcement ecc.) e la gestione dei flussi;
– per crescere nel globale vi sono alcune grandi strutture che determinano il successo di una metropoli, il sistema aeroportuale con le sue connessioni di terra ( locali e nazionali), le iniziative del sistema fieristico-congressuale, i poli universitari di prestigio mondiale,e infine grandi eventi culturali; naturalmente tutte strutture esistenti anche a Roma ma da adeguare al nuovo contesto;
– infine, una grande metropoli non può sopportare le inefficienze della pubblica amministrazione, i ritardi o ancor peggio l’incapacità di assumere decisioni e soprattutto realizzarle; Roma appare,sotto questo profilo, particolarmente appesantita e “ostile” a cittadini e imprese.
Ma il patrimonio decisivo è costituito dal capitale umano, soprattutto quello che più è in grado di guidare un nuovo processo di trasformazione e crescita della città.
Professionalità, managerialità, imprenditorialità: sono queste le tre chiavi per il successo. Abbiamo un apparato universitario di primissimo piano che deve essere aiutato a compiere uno sforzo organizzativo per strutturarsi nel migliore dei modi e rispondere alla domanda di formazione intermedia ed elevata, a dotarsi delle strutture di accoglienza per i giovani , a correggere gli eventuali disallineamenti con l’esigenze del mondo del lavoro.
Grande è la tradizione dirigenziale ma si va riducendo a seguito di scelte politiche o aziendali che rinunciano a un patrimonio irriproducibile con facilità, a favore di una verticalizzazione delle funzioni e di una contestuale compressione della dirigenza allargata. E di questo ne soffrono le imprese, come gli apparati pubblici dove la mancanza di un establishment si fa sentire.
Nel vuoto e nelle incertezze attuali, forze sociali, dirigenti, professionisti, imprese, università possono far crescere la voglia di futuro e trovare le cose concrete su cui far evolvere l’impegno nel presente.
02 Luglio 2012
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Piano città e dintorni… il ritorno delle politiche urbane?
Il tema delle politiche urbane sembra essere ritornato con forza nell’agenda politica italiana e più in generale nel dibattito nazionale. Ancora incerto è però il modo in cui si concretizzerà tale impegno.
di Stefano Sampaolo
Si torna finalmente a parlare di politiche urbane in Italia? La risposta sembra essere affermativa. Il tema è infatti ritornato prepotentemente d’attualità in relazione ad alcune iniziative recenti che hanno trovato sponda nel Governo, il quale si è impegnato a rilanciare concretamente e in tempi brevi l’intervento pubblico sulle aree urbane.
Una prima rilevante iniziativa di stimolo si è tenuta a Roma, presso la sede dell’Ance, il 4 aprile scorso, con il convegno “Un Piano per le città. Trasformazione urbana e sviluppo sostenibile”. In quell’occasione alle sollecitazioni legate alla ricerca Censis-Ance (vedi link su questo sito) il ministro Passera, presente al convegno, aveva risposto rilanciando l’impegno del Governo a far propria l’idea di un Piano per le città. Temi ripresi, qualche settimana dopo a Milano (il 20 e 21 aprile, presso la Fiera di Rho-Pero (in un convegno nell’ambito del Salone del Mobile 2012) in un’analoga iniziativa promossa da Ance, Legambiente e Consiglio Nazionale degli Architetti.
Che le aree urbane rappresentino uno dei fattori strategici per la crescita e la competitività dei Paesi europei, su cui merita di investire maggiormente, è cosa largamente condivisa, come dimostra anche il dibattito sulla futura politica di coesione. Per rilanciare la crescita serve un aumento degli investimenti urbani per fare delle città un ambiente accogliente per i cittadini e per le imprese, rafforzando sia la dotazione infrastrutturale che il capitale culturale, ambientale e sociale urbano. Per far questo è necessario (come dimostra la positiva esperienza del programma Urban) che nella futura programmazione i Comuni assumano un ruolo da protagonisti e la proposta di destinare il 5% almeno del Fesr 2014-2020 alle città per promuovere lo sviluppo urbano sostenibile rappresenta una buona base di partenza in questa direzione.
Ma se guardiamo al contesto italiano e agli anni che abbiamo alle spalle, non possiamo non riconoscere che, pur a fronte di tanta retorica sullo sviluppo urbano sostenibile, c’è stata una generale disattenzione per la questione urbana, e un disinvestimento sulla modernizzazione sostenibile delle città.
Il fatto appare paradossale se si considera che veniamo da un lungo ciclo (durato fino al 2007-2008), di boom degli investimenti in edilizia, di record del mercato immobiliare. In realtà la debole capacità di governo dei processi da parte del settore pubblico, e la necessità di sopperire alla scarsità di risorse finanziarie pubbliche per i servizi locali mediante gli introiti legati alla trasformazione urbana, ha fatto sì che gli spontanei meccanismi del mercato determinassero, quasi indisturbati, una proliferazione edilizia, spesso insensata, che ha fatto per molti anni del mattone la forma di investimento largamente più appetibile.
Occorre registrare che lo sviluppo urbano degli ultimi anni è andato in gran parte a peggiorare le già preoccupanti disfunzioni delle nostre aree-regioni urbane (difficile ormai parlare di città come aggregati compatti e individuabili entro confini definiti), mentre non si sono affrontate alcune questioni chiave (come quella energetica), non si sono investite idee e risorse nella città in modo lungimirante.
Infatti:
– è stata ulteriormente rilanciata la corsa alla proprietà abitativa come unica risposta strutturata al bisogno di casa, laddove una società mobile e flessibile e con bassi redditi come quella odierna avrebbe richiesto un irrobustimento dell’offerta in affitto;
– l’innalzamento dei valori immobiliari nelle aree centrali ha alimentato un ulteriore esodo di famiglie (in particolare quelle più giovani) verso i comuni esterni, dove i prezzi delle case sono più accessibili;
– tale dispersione residenziale ha ulteriormente aumentato un pendolarismo per lavoro/studio basato in gran parte sul mezzo individuale, aggravando la congestione in ingresso alle città.
Peraltro, si è sottovalutata la portata di alcune dinamiche di mutamento sociale molto significative: l’invecchiamento della popolazione nelle aree centrali, la frammentazione legata alla crescita del numero di famiglie e alla costante riduzione della loro dimensione media, l’enorme spinta degli immigrati al centro-nord, con ancora insufficienti esiti in termini di integrazione.
Per l’insieme di tali ragioni oggi c’è bisogno di recuperare terreno sul fronte dell’abitabilità, diminuendo drasticamente l’espansione ed il consumo di suolo, laddove non strettamente necessari, reintervenendo (anche mediante demolizione e sostituzione) sulle parti qualitativamente più scadenti del patrimonio esistente, innalzandone le performances tecnologiche, ambientali ed urbanistiche; realizzando un vero riequilibrio modale, tramite investimenti intelligenti sul trasporto collettivo; riportando in città le famiglie giovani, mediante un ampliamento dell’offerta abitativa in affitto; valorizzando la dimensione socializzante dello spazio collettivo.
Per fare ciò è necessario riacquistare uno sguardo più lungo, avere una visione strategica ed integrata dei temi della trasformazione e riqualificazione urbana, attenta anche alle dinamiche sociali.
Ai primi di maggio il Governo ha convocato per la prima volta un tavolo sul “Piano per le città” a cui hanno preso parte anche i vertici della Conferenza delle Regioni, dell’Anci, dell’Ance, della Federcostruzioni, della Confedilizia, nonché rappresentanti di vari Ministeri (Sviluppo Economico, Istruzione, Coesione), della Cassa Depositi e Prestiti e dell’Agenzia del Demanio. L’obiettivo è puntare ad un coordinamento tra tutti questi soggetti che selezioni e concentri in una visione strategica d’insieme quegli strumenti, fondi, incentivi e programmi che in parte sono già operativi. Il Governo in particolare ha indicato nel “Contratto di valorizzazione urbana”, sottoscritto tra tutti i soggetti pubblici e privati interessati, un possibile strumento di attuazione nel quale far confluire interventi variegati: dalla riqualificazione delle aree urbane degradate con il recupero del patrimonio esistente all’housing sociale, dall’ammodernamento dell’edilizia scolastica alla valorizzazione delle aree demaniali.
Vedremo nei prossimi mesi in che misura si concretizzerà tale impegno e quali possibili sviluppi ci saranno perché non ci si limiti a provvedimenti occasionali ma si avvii finalmente un’azione organica di medio-lungo periodo.
22 Maggio 2012