Il crimine nell’area urbana
di Giuseppe Roma, Direttore generale Censis e Segretario Generale Rur
Mai, come nell’ultima decade, abbiamo assistito ad una crescita di ruolo delle metropoli e ad una contestuale espansione delle paure individuali. Eppure non possiamo affermare che esista un nesso causale fra i due fenomeni. L’insicurezza metropolitana non deriva esclusivamente dalla crescita dei crimini, anche se la presenza della criminalità in ambito urbano – specie se organizzata o mafiosa – provoca danni alla qualità della convivenza, oltre che alla legalità, ben oltre i suoi effetti di vittimizzazione.
La metropoli accresce la sua attrattività esaltando la sua principale caratteristica di essere luogo dell’incontro casuale, dell’imprevisto, della prossimità fisica di persone, gruppi, etnie diverse. Una tale crescita esalta la mobilità e la comunicazione, protetta nei soli snodi chiusi (aeroporti o shopping center, meno stazioni ferroviarie o vie commerciali). L’accresciuto senso di insicurezza deriva da un cambiamento nel modo in cui si ha paura.
E’ l’individualizzazione delle paure a rendere ancora più angosciante la percezione del rischio derivante dalla criminalità urbana. L’ansia va gestita da soli, mentre in passato le grandi paure (povertà, disoccupazione, malattia, guerra nucleare) erano collettive.
Sulla base dei più recenti dati del Ministero dell’Interno (2006) sui reati denunciati non è agevole ricostruire una mappa della criminalità metropolitana nel nostro paese. I furti in appartamento hanno maggiore frequenza nelle metropoli del Centro-Nord (395 per 100.000 abitanti a Torino, 336 a Milano e 257 a Roma); a queste città si affianca anche Bari, mentre le altre metropoli meridionali si collocano, da questo punto di vista, sotto la media nazionale. Discorso simile per i borseggi, ma qui evidentemente le vittime sono tendenzialmente city users visto che a Milano risulterebbero 1.746 denunce ogni 100.000 residenti. I reati che creano maggiore allarme sociale quali omicidi, scippi, furti d’auto vedono ai primi posti Napoli,Catania e Bari.
Londra risulterebbe nel 2005 la megalopoli con maggior numero di vittime di reati predatori tipicamente urbani con il 32% della popolazione, più bassi i valori di Roma (17%) e Parigi (18%). Dal punto di vista della percezione dei cittadini, le città europee con la maggior quota di popolazione che si sente sempre insicura sono prevalentemente mediterranee: Atene (33%), Lisbona (31%), Marsiglia(30%) e Napoli (29%). La sicurezza si percepisce più elevata nelle città dove migliore è la qualità della vitacome Stoccolma, Helsinki, Vienna, Monaco o Barcellona.
La sicurezza diviene uno dei paradigmi per organizzare la vita quotidiana delle città. La vivibilità dipende anche dal livello di non accettazione per atti anti-civici (gang, vandalismi, sporcizia, incuria degli spazi pubblici, spaccio), dalla presenza di capitale sociale (reti e relazioni comunitarie) e di capitale istituzionale (esercizio della forza, ma anche rispetto delle regole, della fiscalità, formazione dei cittadini, fattori simbolici).
Gli interventi di controllo del territorio da parte dei responsabili professionali (forze dell’ordine/operatori pubblici) sono fondamentali e possono riguardare:
a) la protezione territoriale ossia la messa in sicurezza dei quartieri con il presidio delle istituzioni;
b) la visibilità allargata e la tele sorveglianza per il controllo a distanza;
c) la riqualificazione dello spazio pubblico come riconquista permanente a funzioni di uso collettivo.
Senza un ruolo attivo dei cittadini, tuttavia, senza una condivisione di valori civici, senza sviluppare reti solidali, senza l’aiuto reciproco e una vita sociale di quartiere, le metropoli non ritroveranno maggiore sicurezza.
27 Novembre 2007
_________________________________
Nella città globale vincono i servizi
La città motore dell’economia
di Giuseppe Roma, Segretario Generale Rur e Direttore Generale Censis
La popolazione mondiale è ormai grandemente una popolazione urbana: dei 6,5 miliardi di abitanti del mondo, 3,3 miliardi sono da considerarsi popolazione urbana. Nei primi anni Cinquanta 83 città o sistemi urbani avevano, nel mondo, più di 1 milione di abitanti; oggi siamo passati a 280 aggregati urbani.
La crescita dell’urbanizzazione nel contesto globale mostra caratteri diversi dall’urbanesimo che ha interessato tanta parte del secolo scorso. Se nelle regioni metropolitane dei paesi a più basso reddito convergono, tuttora, grandi masse di popolazione prevalentemente alla ricerca di opportunità per sopravvivere, le città dei paesi emergenti e di quelli sviluppati crescono in quanto luoghi deputati all’innovazione, allo sviluppo di nuovi servizi, al soddisfacimento di una rilevante quantità di bisogni per residenti, visitatori e turisti.
Molti dei fattori che stanno rivoluzionando il modello di sviluppo globale hanno un ambiente di coltura urbano. L’alta competenza delle risorse umane si forma nelle aree dove prospera la ricerca e la formazione avanzata, mentre la circolazione delle conoscenze e un diffuso benessere accrescono le forme di nuova creatività.
Le centralità urbane, poi, moltiplicano l’impatto positivo delle tecnologie informative, integrandole con l’industria dei media e il terziario della comunicazione. Come nodi di reti sempre più estese e interconnesse, attraggono flussi di mobilità e, con la popolazione immigrata, aprono le comunità locali ad una logica interculturale. Il turismo diviene un’attività economica pregiata e non più residuale, tanto da rivitalizzare il tessuto insediativo urbano attraverso la produzione artistica, nuove architetture di pregio, poli d’intrattenimento.
L’apertura dei sistemi nazionali ad una dimensione globale, rivoluziona i termini di una gerarchia urbana che fino ad un decennio fa’ vedeva, specialmente in Italia, una dicotomia fra medie città dinamiche e ad alta qualità della vita, e grandi concentrazioni urbane stagnanti e informi (per qualcuno addirittura “deformi”). I distretti industriali guidavano i processi di sviluppo, mentre oggi è ormai chiaro che la ripartenza dell’Italia è provocata molto di più da un nuova rivoluzione imprenditoriale fondata sulla singola azienda, capace di cavalcare i fattori competitivi tipici della globalizzazione quali tecnologie, logistica, finanza, marchio, reti distributive, organizzazione manageriale.
Città medie, capitali di distretti produttivi come Vicenza, Treviso, Parma, Prato, Fermo, ecc. possono segnare eccellenze di nicchia oltre a elevati livelli qualitativi in termini di vivibilità, ricchezza, cura dell’ambiente urbano, ma difficilmente potranno rientrare in una competizione di vertice dove si sono, invece, affacciate città come Roma, Milano, Torino o, al limite, Verona o Genova, che meglio hanno saputo cogliere i segni della rivoluzione globale.
In quanto tramite fra l’economia nazionale e l’economia mondiale, le aree urbane presentano condizioni di maggiore differenziazione rispetto al passato. Seppur i servizi complessi tendono a concentrarsi nei poli più aperti e collegati con il resto del mondo, esistono ampi spazi anche per sistemi urbani intermedi. L’allargamento dell’orizzonte, ovvero delle prospettive spaziali ove la comunità urbana proietta le sue azioni e le sue aspirazioni, è forse il portato più nuovo del ruolo economico che stanno assumendo le città.
Le nuove gerarchie globali, tuttavia, non sono piramidali. Seppure per partecipare ai processi di rinnovamento è necessaria una massa critica consistente, la soglia minima di ingresso può essere relativamente bassa (potremmo prendere il milione di abitanti come riferimento). La mondializzazione funziona, infatti, per circuiti ormai sempre più specializzati tali da determinare molteplici reti di relazione funzionali entro cui le città tendono a ritrovare un proprio specifico ruolo, distintivo rispetto alla gran massa di realtà urbane prevalentemente ripiegate sulle relazioni locali e nazionali. Naturalmente ciò è evidente per grandi realtà tecnologiche e industriali che competono per affermarsi sui mercati come produttori di specifici beni. Ma altrettanto vale per i servizi la cui internazionalizzazione non è più limitata a macro categorie come la finanza o il turismo.
Potremmo concludere che la città, a tutte le scale e dimensioni, esce vittoriosa sul piano della produzione di reddito, delle attività economiche, dell’innovazione, della creatività. I pericoli vengono, tuttavia, dai fattori sociali, indispensabili per realizzare quel contesto accogliente e sicuro entro cui una comunità urbana può riconoscersi in una visione mondializzata. La socialità è messa a rischio dalle disuguaglianze implicite in processi di sviluppo condizionati dall’incertezza e dalla competizione.
La pressione competitiva rischia di sacrificare i valori di socialità: il passaggio da città manifatturiera a regioni urbane tecnologiche e produttrici di servizi può infatti dar luogo ad una forte polarizzazione nella struttura sociale. Si pone dunque il problema di mantenere coesa la comunità urbana. La pressione competitiva e la forza dirompente dell’economia rischia di sacrificare i valori di socialità che sono alla base del successo di una città visionaria aperta al macro cosmo globale.
La sfida è quella di costituire una vera comunità metropolitana, dove gli interessi parziali trovano la convergenza come condizione irrinunciabile per progredire, pena il regresso e la emarginazione dai grandi processi globali.
20 Giugno 2007
____________________
Potenzialità e rischi dell’approccio strategico nel governo delle trasformazioni urbane
Le regole per fare strategia
di Giuseppe Roma, Segretario Generale Rur e Direttore Generale Censis
Le riflessioni teoriche degli ultimi anni sul tema della pianificazione strategica hanno ormai trovato riscontro, nel nostro Paese, in una diffusa e recente sperimentazione, che assume rilevanza quantitativa sempre maggiore.
Con riferimento alle politiche di sviluppo del territorio, oggi in Italia si producono numerosi documenti di prospettiva nei diversi livelli locali, ma soprattutto in quello comunale, che rimandano esplicitamente a questa dimensione. Documenti ed esperienze che, naturalmente, rispondono a domande in parte diverse e che originano da esigenze avvertite localmente o in risposta a stimoli all’innovazione provenienti dall’esterno (l’Europa, lo Stato centrale, la Regione).
La diffusione di pratiche innovative che fanno riferimento all’approccio strategico è avvenuta nel nostro Paese in un arco temporale di meno di dieci anni per effetto di una spontanea contaminazione, dello scambio di esperienze e di riflessioni, e grazie agli incentivi finanziari da parte dello Stato centrale e delle regioni. Naturalmente questo processo di diffusione (e anche di omogeneizzazione) delle pratiche non è di per sé automaticamente un fattore di innovazione. Il passaggio da poche esperienze pilota alle circa 70 attualmente censite pone evidentemente l’esigenza di qualche riflessione.
Senza dubbio operare una chiara selezione e definizione di obiettivi e priorità, in un’ottica di medio periodo, e cercare su queste di costruire condizioni di possibili convergenze tra gli attori locali può costituire una spinta alla condensazione degli interessi intorno a visioni che sappiano guardare al di là dei problemi contingenti. Nelle politiche pubbliche avere visione di futuro è diventato sempre più difficile, visto che spesso la logica del consenso impone un’agenda di priorità di corto respiro ma di immediata visibilità. Fare in modo che gli interventi a breve termine siano iscritti in una prospettiva di medio o di lungo periodo rappresenta dunque un importante cambio di prospettiva.
Tuttavia, un tale rapido e generalizzato successo rischia di indebolire lo strumento e di inflazionare le terminologie, piuttosto che rafforzare la cultura di governo del territorio locale.
Un primo rischio da tenere in considerazione è quello dell’affermarsi di una versione debole dell’approccio strategico, puramente retorica, che si traduce in una scarsa selettività dei temi e in una notevole genericità dei contenuti dei piani. C’è spesso un equivoco di fondo: il Piano Strategico non va inteso come spazio per la risoluzione di tutti i problemi del contesto urbano; in altre parole selezionare alcuni temi prioritari non significa escludere dall’agenda politica altri temi, ma individuare le questioni cruciali, quelle capaci di provocare un effetto “a catena” di cambiamento.
È, inoltre, necessario inserire le strategie locali in quadri di coerenza a scala di area vasta e regionale. La realtà locale non può prescindere dalle politiche strategiche regionali, statali e comunitarie, alla condizione però che le strategie sovraordinate lascino gli spazi di manovra necessari.
In particolare sul piano della competitività, si tratta anche di capire in quali ambiti un territorio può giocare una funzione di leadership, in quali deve riuscire a rafforzare la complementarietà con altre polarità giocando da partner, in quali altri non ha le carte per svolgere una funzione significativa.
Una seconda questione riguarda la reale capacità di innovazione che la pianificazione strategica ha sui comportamenti ordinari. Anzitutto all’interno delle stesse amministrazioni che del piano spesso sono promotrici, è spesso diffusa una certa inerzia rispetto a spinte innovatrici. Il pericolo è spesso quello di disintegrare nell’attuazione quello che il Piano Strategico aveva tentato di integrare a livello di programmazione. Anche nei rapporti con l’esterno, ad esempio nel rapporto con i comuni della corona e con la provincia, l’obiettivo dovrebbe essere quello di comportamenti improntati a una maggiore fiducia e volontà di cooperazione. Mettendo in rete i soggetti accomunati dall’impegno al cambiamento.
L’elaborazione della strategia deve nascere dal confronto costruttivo anche tra differenti modelli e differenti idee di città. Sarebbe estremamente limitante utilizzare queste procedure per legittimare indicazioni e scelte già decise in altre sedi o imposte da soggetti economici forti o da interessi particolaristici. Il consenso diffuso sull’idea di città proposta dal Piano Strategico, pur se ricercato, deve comunque prevedere la salvaguardia di visioni difformi che possono in futuro arricchire la natura evolutiva del processo di trasformazione.
Ragionare sul futuro può essere l’occasione per superare posizioni preconcette, veti incrociati, barriere sedimentate nel tempo. In quest’ambito un elemento critico è il rapporto con le rappresentanza politica. È evidente che il processo di pianificazione strategica, per la sua forte vocazione partecipativa e per le aree tematiche che affronta, può dare l’idea di sovrapporsi al “luogo naturale” della rappresentanza costituito dai Consigli Comunali. Occorre dunque evitare che gli organi della rappresentanza istituzionale possano sentirsi superati nel processo decisionale e nel ruolo di rappresentanza della società civile. Il ruolo dei Consigli, in altre parole, non può essere ridotto a una semplice adesione finale o ratifica del piano. Sembra dunque opportuno che in alcuni passaggi intermedi i Consigli Comunali siano coinvolti “formalmente e sostanzialmente” nel processo.
Un ulteriore tema è quello della possibile caduta di tensione successiva alle fasi di avvio del processo di pianificazione strategica o, se si vuole, dei meccanismi da attivare per un coinvolgimento e una responsabilizzazione permanente della società civile. In questo incide ovviamente anche il diverso orizzonte temporale tra il piano, i progetti che ne fanno parte e le politiche dell’ordinaria amministrazione.
In alto quadro di Claudio Giomi “Città vive, città caotiche, città avvenieristiche, città fantasma, città melanconiche…che emergono dai ricordi o che vivono nella fantasia di ciascuno di noi”
29 Marzo 2007