Andamento lento come opportunità per il buon vivere

Un territorio fertile per un’economia sostenibile

 

di Giuseppe Roma, Direttore Generale Censis, Comitato Scientifico Cittàslow

 

baricentro.gif

Lentezza e felicità. Dopo il crac della finanza globale si ricercano, con maggior vigore,le basi ideali su cui fondare un nuovo ordine economico. La “bolla” si è creata anche per l’accelerazione degli scambi monetari; una vertigine virtuale basata sulla velocità dei passaggi di titoli, azioni, immobili con valorizzazioni non più ancorate a processi reali. Cinema e letteratura hanno dato immagine ai trader della City o di Wall Street, incollati ai computer per comprare e vendere nell’arco di pochi secondi. La rapidità degli scambi ha portato a guadagnare (o perdere) tanto, senza sapere sostanzialmente perché, inducendo una crescita delle disuguaglianze sociali nei paesi industriali e delle distanze fra Nord e Sud del mondo. La forbice fra ricchi e poveri è più che doppia per quanto attiene alla distribuzione dei patrimoni familiari, rispetto alle differenze di reddito. La velocità della finanza è inaccessibile ai più e finisce,quindi, per creare enormi distanze sociali.

Anche la lentezza può provocare malessere sociale se utilizzata come arma impropria nell’uso del potere. L’Italia è un paese lento se guardiamo ad alcune funzioni fondamentali: la giustizia (1200 giorni per risolvere una vertenza civile rispetto a una media Ocse di 500), la realizzazione di servizi (30 anni per e un nuovo ospedale), il trasporto pubblico urbano, una qualsiasi procedura che coinvolga la pubblica amministrazione. La lentezza da inefficienza o da arroganza nei confronti dei cittadini e della collettività non è quella giusta, anzi è il sintomo di una cattiva politica.

Per ricercare nuovi paradigmi bisogna convenire che è ormai evidente come, dopo una certa soglia di benessere materiale, la strada della soddisfazione personale si allontana dalla semplice crescita della ricchezza materiale. La felicità non può essere rapportata esclusivamente alla quantità di beni consumati sulla base della capacità di reddito. Nonostante l’economia della felicità abbia nobili radici settecentesche (dai ribelli Corsi, ai rivoluzionari americani e alla Costituzione toscana di Pietro Leopoldo) la sua recente riproposizione potrebbe risultare stucchevole in un mondo dove ancora la maggior parte delle persone annette il benessere alla sopravvivenza. Tuttavia, va ricondotta al suo significato originario, al concetto di fertilità, di nutrimento morale che effettivamente potrebbe dare senso al futuro, visto che la crescita economica “oltre un certo limite” non offre più soddisfazione ai bisogni integrali della persona.

L’ economia della lentezza può dare una risposta, non solo teorica,a questi interrogativi. I comportamenti sociali sono stati classificati secondo un’ astratta logica razionale nelle schematizzazioni sul funzionamento dell’economia. La realtà però nega l’esistenza di un consumatore o risparmiatore che opera esclusivamente sulla base degli interessi; fattori emotivi, di tradizione o psicologici sono determinanti nelle scelte individuali. Oggi la componente emotiva è in forte crescita, basti pensare alla diffusione delle paure. Inoltre le decisioni e le attese sono condizionate dalle relazioni con il contesto, con gli altri, dalla comunicazione, dalla politica. L’economia deve tenere sempre più in conto i rapporti sociali. Ci sono valori cui talvolta è, persino, difficile dare un prezzo,ma che vengono apprezzati fortemente dagli individui nella ricerca del benessere personale: convivialità, autenticità, tradizione, bellezza, salubrità. Ai beni posizionali, che sono limitati e presumono una competizione per ottenerli, si affiancano i beni relazionali potenzialmente illimitati, ma il cui mantenimento presuppone una grande responsabilità collettiva, una cultura comune viva. La rapidità è superficiale e rende difficile il godimento di beni relazionali, la lentezza consente un maggiore approfondimento,fa apprezzare la natura profonda dei beni, delle relazioni, dei contesti territoriali.

C’è un’Italia felix che produce. L’economia della lentezza punta a realizzare una collettività di persone motivate a realizzare una vita piena e giusta. Induce appropriatezza nello svolgere molte funzioni che l’economia di mercato ha relegato al consumo rapido e superficiale come l’alimentazione,la salute,il benessere psico-fisico. Più in generale,può considerarsi la punta più avanzata di quella temperanza nei consumiormai pratica di massa in Italia. I valori economici segnano la fuoriuscita dalla marginalità per diversi segmenti di questa nuova economia. Nelle 53 zone eno-turistiche e 421 città del vino si fatturano 9 miliardi di euro,il termalismo e il wellness occupano 15.000 addetti con un fatturato di 2,8 miliardi di euro. Palestre, fitness e cura del corpo hanno 18 milioni di utenti per un giro d’affari di 14 miliardi. La ristorazione fattura 7 miliardi, bar e caffè 11,6 miliardi. In complesso si rasenta il 3% del Pil, più di quanto fatturano molti settori industriali. Certo sono categorie composite, dove c’è fast e slow, ma è comunque un elenco molto parziale che con comprende la ricettività rurale o d’arte, il commercio di qualità, l’agricoltura, le energie rinnovabili, la mobilità sostenibile etc.

L’umanesimo territoriale. L’economia della lentezza è soprattutto una realtà radicata nel territorio. Poiché le città si sviluppano sulla base delle tecnologie di trasporto, la loro dimensione cresce in funzione dello spazio percorribile in un’ora. La città da percorrere a piedi ha un diametro di 4 Km,, in auto di 25 km., con l’alta velocità ferroviaria si arriva a circa 300 Km. La diffusione in Italia di una piccola scala urbana di elevata qualità costituisce il reticolo naturale a supporto di un’economia della lentezza, comunque progressiva e soddisfacente, in grado di contrastare le tendenze alla decrescita e alla decadenza. Le aree metropolitane italiane concentrano il 28,2% della popolazione con 9,3 milioni di abitanti nei centri principali e 7,5 milioni nei 443 comuni delle corone periferiche. Nei 107 comuni con oltre 50.000 abitanti vivono 9,5 milioni di italiani pari al 25,9% dei residenti. Nei 7.537 comuni con meno di 50.000 abitanti (ritenuta a livello internazionale una soglia di vivibilità molto buona) è concentrato il 55,9% dei residenti: 3,4 milioni (5,7%) in 3.522 centri fino a 2000 abitanti, 24,3 milioni (24,3%) nei 3.196 comuni fra 2000 e 10000 abitanti, i restanti 15,4 milioni nei comuni fra 10 e 50000 abitanti (dati 2008). In definitivatrentatré milioni di italiani vivono in centri di dimensioni tali da consentire un rapporto diretto fra le persone.

Per fortuna non si tratta di città dormitorio, anzi nelle città medio-piccole è concentrata la maggior parte dell’economia agricola, dell’industria manifatturiera e delle costruzioni. Su 23.115.000 occupati al 2007, 13.090.000 risiedono nei centri medio piccoli con meno di 50.000 abitanti, ovvero il 56,6% del totale. In particolare, il 63,8% dei lavoratori indipendenti, il 63,7% degli imprenditori,il 62,9% degli operai. L’economia produttiva artigiana, manifatturiera e tecnologica si concentra nei centri ad alta vivibilità. Professionisti e impiegati si attestano attorno al 50% degli occupati, dirigenti e quadri sendono al 42,1%.

Nei centri medio-piccoli imprenditori,operai e autonomi costituiscono il 58,6% degli occupati.

Puntare sull’eccellenza e sulla qualità sociale. In un contesto così fertile per storia e tradizione locale, la portata degli interventi nelle città medio-piccole costituiscono la chiave per la ripresa dopo la crisi, più in generale per mantenere e riqualificare il nostro territorio.

Il movimento delle città slow sta contribuendo con impegno a creare questa nuova cultura.

 

 

31 Maggio 2009

 

______________________

 

 

Condividi

Lascia un commento