DESTINI DIFFERENZIATI PER I PICCOLI COMUNI di giuseppe roma

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Uno degli effetti più evidenti della iper-competizione globale è la tendenza a concentrare popolazione e attività economiche in grandi contenitori metropolitani. Qui, nelle maxopoli, si generano i grandi flussi d’innovazione, è presente il capitale umano più qualificato, risiede il potere finanziario, avvengono intensi scambi e relazioni. Anche l’Italia policentrica, delle cento città, dei borghi è soggetta a un processo molto simile. Delle prime dieci aree metropolitane più popolose d’Europa ,infatti, ben tre sono italiane – Milano, Roma e Napoli – seconde solo a Londra, Parigi, Madrid e Berlino. A differenza di altri paesi, tuttavia, da noi, le maxopoli non hanno storicamente funzionato come idrovore, e non hanno prosciugato il territorio meno intensamente urbanizzato. La condensazione metropolitana più che per espansione di un grande centro, è avvenuta per saldatura, attorno a un polo principale, di realtà diverse come medie città, distretti, piccoli comuni a prevalente funzione residenziale. Il risultato è, comunque, che il 61% della popolazione italiana vive e si muove quotidianamente in una realtà metropolitana. Ma cosa succede al restante 39%, soprattutto quando risiede in piccoli centri e in aree meno densamente popolate? Non c’è dubbio che questa Italia sia soggetta a due differenti destini. Il territorio periferico è vincente se strettamente connesso all’eccellenza italiana sia nella lunga filiera agro-alimentare di grande qualità, che nella valorizzazione del paesaggio, dell’arte e delle architetture. L’agricoltura si modernizza, crescono i prodotti certificati per il legame col territorio di produzione e per il recupero delle tecniche di tradizione, dando lustro alla nostra immagine nel mondo e un significativo contributo all’ export. Basti pensare alla rete delle Cittàslow (città del buon vivere di dimensioni medio piccole) diffusasi spontaneamente da Orvieto in ben 27 paesi del mondo.

C’è, però, anche un’altra più difficile realtà periferica. I centri che non reggono più all’abbandono delle giovani generazioni per mancanza di opportunità, che invecchiano e perdono le dimensioni minime per una vita sociale. Qui la crisi e il taglio delle risorse pubbliche fa rischiare il collasso. Quando vengono a mancare l’ufficio postale, la farmacia o la scuola elementare, rari i collegamenti col trasporto pubblico, diventa ineluttabile l’abbandono con tutti i rischi conseguenti. Una comunità viva, anche se piccola, vuol dire manutenzione degli edifici, del territorio, del bosco, dei torrenti. L’isolamento al contrario produce degrado e  dissesto. Per evitare che aree interne, montane o periferiche regrediscano allo stato semi-selvatico bisogna pensare a funzioni nuove. Molto spesso si tratta di territori incontaminati, di paesaggi straordinari dove la popolazione metropolitana italiana e straniera potrebbe trovare interesse a passare periodi dell’anno . Il bar, il ristorante o il negozio di alimentari dovrebbe però trasformarsi in un emporio con i generi di prima necessità, uno sportello postale a “gestione familiare”, un bancomat, un piccolo presidio para-farmaceutico, un punto per le chiamate d’emergenza. E poi, potrebbero essere dotati degli indispensabili collegamenti in rete, da finanziare con le mal utilizzate risorse europee. Metteremo in sicurezza una popolazione oggi abbandonata al suo destino, ma ne guadagnerebbe l’Italia rimettendo in circuito un patrimonio destinato all’abbandono. Un altro italico spreco.

Giuseppe Roma

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